In occasione della proiezione di I migliori nani della nostra vita e della presentazione di Cinico Tv. Volume terzo 1998-2007, il cofanetto delle Edizioni Cineteca di Bologna che chiude la trilogia dedicata alla mitica serie di Ciprì e Maresco, pubblichiamo in esclusiva un estratto dal libro che accompagna il DVD. L’articolo di Fulvio Baglivi, denso di ricordi, curiosità e interesse, è tra i molti contenuti preziosi (un altro è scritto da Gabriele Gimmelli e Marco Grosoli, e si può leggere qui). 

Il primo incontro avvenne nel 2005 a Bologna dove ero con Donatello Fumarola e Enrico Ghezzi. Noi tre uscivamo da un’edizione monstre di Il vento del cinema, il festival tra cinema e filosofia che da due anni era approdato sull’isola di Procida, durata ben tre settimane (6-26 giugno), e andavamo a Bologna per incontrare Barry Gifford (amico di Enrico e Donatello), Michael Cimino per la futura edizione procidana e soprattutto per vedere Viva Palermo e Santa Rosalia, spettacolo teatrale di Ciprì e Maresco voluto da Angelo Guglielmi, che era stato chiamato a fare l’assessore alla cultura. Chiunque era presente non può non ricordare una Piazza Maggiore stracolma, con migliaia di persone e più della metà in piedi, sul palco Mimmo Cuticchio e Franco Scaldati recitano in dialetto palermitano sovrastati da due enormi schermi dove si alternano i volti degli attori in diretta e immagini ciniche della città mentre Enrico Rava e Salvatore Bonafede suonano dal vivo. Si è alzato un vento forte che ha accompagnato lo spettacolo con un crescendo di protagonismo e che è rimasto ben impresso nella registrazione video di quella serata. La cosa più straniante e allucinata che mi porto dietro, più ancora dell’incontro con Ciprì e Maresco in carne ed ossa, è proprio la visione di Viva Palermo e Santa Rosalia in Piazza Maggiore, l’unica volta in cui ho sentito la potenza mitica del teatro come momento rituale pubblico e senza dio. Quel vento portava echi della Grecia antica e del teatro popolare, l’evento (culturale) mutava nell’avvento (dell’apocalisse).

L’anno dopo Franco e Daniele vennero a Procida, edizione Catastrionfo di Il vento del cinema. Tra i vari ospiti da ‘seguire’ durante il festival io avevo scelto Ciprì e Maresco nonostante la presenza di un altro grande cineasta apocalittico come Werner Herzog, il quale, superando come sempre le barriere geografiche, linguistiche e culturali rimase a vedere tutto il montaggio con i maestri Ciprì e Ferrara e si premurò che qualcuno del festival riportasse il suo sincero divertimento ai due autori palermitani. In quei giorni sull’isola ebbi modo di passare un po’ di tempo con loro, all’inizio parlando soprattutto di cinema. Non era un periodo facile per entrambi, ricordo Daniele accendersi per Lady in the Water di Shyamalan e sempre a suo agio quando si parlava di film, macchine, tecnica mentre con Franco, pur incuriosito dal mio amore per Rossellini e Ford, dalla mia visione spesso estremista e negativa del cinema come della vita, le discussioni presero quasi da subito altre derive. Ad aumentare la nostra confidenza fu l’incontro successivo, nel novembre dello stesso anno a San Giovanni Valdarno per il Premio Marco Melani. C’era solo Franco e passammo un intero pomeriggio di domenica a cercare una farmacia aperta. Da quel momento il rapporto con lui non si è più interrotto, pochi mesi dopo Ciprì e Maresco mi avrebbero chiesto di dargli una mano per Ai confini della pietà, un’altra serie di puntate per La7 dopo I migliori nani della nostra vita.

Da fan diventavo fante, Maresco utilizzava come metafora di questo passaggio momenti, battute e scene della trilogia della cavalleria di Ford. Da parte mia, preferendo mettere i panni dell’allievo, preferivo citare un altro film di Ford: La lunga linea grigia. La mia prima missione fu cercare immagini del maxi processo alla mafia per la prima puntata di Ai confini della pietà, quella dedicata a Giorgio Castellani/Giuseppe Greco, figlio del ‘papa’ di Cosa Nostra Michele Greco, che si dedicò al cinema con tanta passione e altrettanta sfortuna. Questa storia straziante ma dai contorni esilaranti, che interessa ancora oggi Maresco, è una delle più belle dell’ultima stagione di Ciprì e Maresco, segnata secondo entrambi gli autori dalla stanchezza e dallo sconforto ma altrettanto da miseri budget e scarse attenzioni. Rimettendo un’ultima volta i panni del fan (i successivi lavori di Maresco li ho vissuti tutti troppo dall’interno, con relativi problemi di messa a fuoco) credo che le due serie per La7, prese insieme, ci abbiano regalato una flagranza rosselliniana nel riutilizzo di materiali girati precedentemente, che assumono tratti diversi, mostrano la forza vaticinante che contenevano anni prima senza mai sapere di minestra riscaldata.

Sia I migliori nani che Ai confini di Rossellini si portano dietro anche il concetto di ‘cinema alimentare’, ma accanto c’è la scoperta dei maestri Ciprì e Ferrara, corpi da un mondo perduto che formano una coppia comica degna a tratti di Franchi e Ingrassia, e poi ci sono i ritratti sublimi di Monicelli e di Franco Scaldati; quest’ultimo una sorta di bozza del film che Maresco dedicherà alla vita e al teatro del suo grande amico e concittadino, portandolo a termine anni dopo, senza più Ciprì e soprattutto senza Scaldati. Questi omaggi ad artisti amati e ormai relegati per gloria o per dimenticanza altrove, così come la musica tragicomica e da un altro mondo di Ciprì e Ferrara, sono il contraltare a una serie di brevi sketch che a un primo sguardo si potrebbero definire in stile ‘cinico’ ma che invece mostrano ormai senza pietà e alcuna concessione alla bellezza il degrado etico e morale della Sicilia e dell’Italia. Sono piatti freddi colmi di disperazione e livida ferocia, quasi sempre girati in studio (rispetto alle strisce per Blob scompare la Sicilia, la luce e i profili che conservavano tracce di una bellezza distrutta e perduta) e senza filtri o giri di parole inchiodano lo spettatore di fronte alla realtà fatta da Riina, Provenzano, Cuffaro, Berlusconi, i massoni e così via. Anche con le ultime cose Ciprì e Maresco si mettono in una posizione scomoda e pericolosa, ovviamente perdente, attaccando con precisa violenza e altrettanta trasparenza poteri veramente forti, cosa unica nella tv supercontrollata dell’era Berlusconi ma altrettanto rara in quella precedente quanto nella successiva.

Terminata la collaborazione con La7 per Ciprì e Maresco e Cinico Cinema le cose andavano sempre peggio, nonostante Pippo Bisso provasse strenuamente a tenere in piedi la situazione e accanto a Franco e Daniele ci fosse Claudia Uzzo, divenuta presenza stabile da Il ritorno di Cagliostro in poi. Il lavoro di Claudia all’interno delle opere di Ciprì e Maresco e di Maresco da solo poi, meriterebbe un capitolo a parte, di sicuro il suo apporto alla fase creativa quanto a quella organizzativa e di ricerca e approfondimento (tante immagini rare di Come inguaiammo il cinema italiano sono state trovate grazie alla sua caparbia dedizione) va ben al di là di quanto appare nei titoli. Claudia Uzzo non è una semplice collaboratrice né un ‘aiuto’: arrivata dopo Cinico Tv, dopo Lo zio di Brooklyn e Totò, ha contribuito a quello che era un percorso già iniziato con assoluta coscienza etica ed estetica, e con ostinato rigore continua a fare in modo che nonostante tutto e tutti certe linee (di pensiero e di azione) si approfondiscano o al limite si interrompano, ma non mutino in qualcos’altro.

Tornando lungo la linea grigia fordiana del titolo si può dire che la truppa era lacerata dalle ferite accumulate in anni di battaglie, fiaccata nel morale, senza risorse, circondata da svariati creditori e nemici di varia natura. In questa situazione i rapporti interni al gruppo, che erano già logori, peggiorarono ed è durante questo periodo che Ciprì diresse la fotografia di Vincere di Bellocchio. La scelta si sarebbe rivelata anche azzeccata, il film fu presentato in concorso a Cannes e la fotografia di Ciprì vinse il David di Donatello, ma fu allo stesso tempo un segno evidente che Daniele si era tirato fuori dal ‘mondo cinico’. La questione non sta nell’abbandono o nel lasciarsi, gioco di ruoli proprio della natura della coppia, quanto nell’esigenza del cinema, di fare e farsi cinema.

I lavori di Ciprì senza Maresco, al di là della minore o maggiore riuscita di ognuno, mostrano l’urgenza di sfruttare il proprio talento e di inseguire  il mito (ri)conosciuto del cinema per strade diverse. Il Ciprì che filma Filippo Timi e Ascanio Celestini è lo stesso che filmava Francesco Tirone e Marcello Miranda, è riuscito a fare un film da un libro di Alajmo, mentre per anni aveva dato un’immagine molto diversa di Palermo: alla base c’è una sorta di fede nel cinema, una convinzione tragica che raccontare storie, dirigere attori, fotografia, luci sia ancora non solo possibile ma addirittura importante. Poiché il mio mangiare proviene dallo stesso campo non posso che augurargli e augurarmi i migliori successi. Di sicuro Ciprì non poteva restare accanto a Maresco, che al contrario sente l’inutilità e il non senso del cinema come di tutto il resto, che combatte ogni giorno con la nausea e la fame, facendo i conti con un impossibile sentimento di nolontà. È in questo humus e da questi umori che nasce Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, un’opera unica, un (auto)ritratto spietato, un’epica della sconfitta solitaria e declinata al singolare. È difficile trovare le parole che rimandino alla forza disperata di Io sono Tony Scott, è bello immaginare che se Tony fosse stato in vita di fronte al film avrebbe composto un suo Io sono Franco Maresco, ovvero come l’Italia fece fuori la più grande voce fuori campo del cinema.

Fulvio Baglivi