Torino, 1969: Massimo è un bambino di 9 anni che perde l’amatissima madre in circostanze a lui misteriose. Riuscirà a far luce sulla tragedia che ha segnato la sua vita solo da adulto e con grande fatica. Questo il cuore della vicenda che Marco Bellocchio rielabora nel suo recentissimo Fai bei sogni, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini e interpretato da Valerio Mastandrea.

Lo abbiamo pensato tutti: Bellocchio ha apparentemente poco in comune con Gramellini, così come quest’ultimo ha poco a che fare con Mastandrea. Eppure li ritroviamo tutti e tre insieme al centro del film, rispettivamente come regista, autore del romanzo da cui il film è liberamente tratto, e protagonista principale. Ai tre bisognerebbe poi in realtà aggiunger una quarta presenza, più defilata ma non per questo meno presente, che è lo scrittore Edoardo Albinati, co –sceneggiattore insieme allo stesso Bellocchio e a Valia Santella e autore del recente La scuola cattolica.

I lettori di Gramellini andranno al cinema sperando in una trasposizione fedele del libro, gli amanti di Bellocchio andranno speranzosi in una lettura bellocchiana fedele solo a se stessa. Ebbene, superando in veloce sorpasso le speranze e i timori degli uni e degli altri, Bellocchio riesce a sorprendere tutti, confezionando un potente film autoriale che attinge a piene mani ma con sapienza dal best seller. Il risultato è dovuto all’indiscutibile bravura del regista ma anche al fatto che la questione della fedeltà è questione fondamentalmente mal posta. A partire dal testo originale Bellocchio, Albinati e Santella, hanno scritto una sceneggiatura che, come hanno dichiarato e come è giusto che sia, è al tempo stesso fedele e infedele. “Vi starete domandando se la realizzazione filmica non sia altro che la continuazione della scrittura – scriveva Kubrick – Ritengo che realizzare un film sia esattamente questo”. Ecco, l’aver saputo cogliere esattamente l’ossessione alla base del testo di Gramellini e l’aver continuato a scriverla contaminandola con le proprie personali letture, ha reso possibile e pienamente riuscita un’impresa che sulla carta poteva apparire azzardata.

E d’altra parte l’ossessione, il demone di questa storia è stato colto in maniera impeccabile da Bellocchio fors’anche perché si inserisce così bene nella sua personale galleria di demoni sulle madri. Che inizia da quella uccisa in I pugni in tasca per arrivare a quella perduta in Fai bei sogni, figure opposte ma che comunque ci mettono davanti al tema del rapporto con la madre, dal desiderio al timore della sua morte. Così come ci mostra il regista nella bellissima e angosciante scena finale: l’eterno – e quindi ossessivo – gioco a nascondino con una madre che perdiamo e che abbiamo sempre il terrore di non ritrovare.

Ma partendo dal rapporto madre – figlio (che curiosamente in questo stesso 2016 un altro grande autore come Pedro Almodovar ha trattato nella declinazione madre – figlia nel suo Julieta), Bellocchio arriva a parlarci anche di bambini, del loro vampiresco bisogno di amore e di comprensione e del modo forse tutto sbagliato con cui noi adulti tentando di proteggerli in realtà li danneggiamo.

Nonostante questi temi rimangano tutti nei binari di una poetica propria del regista, anche attraverso la ripetizione di consuete simbologie (porte, case, ombre, acqua), in realtà Bellocchio a un certo punto abbandona il registro narrativo più intimista, spingendosi su nuovi terreni (come già aveva fatto in Sangue del mio sangue). In alcuni momenti sembra quasi che l’intima sofferenza bellocchiana trovi un riscatto, un’apertura, un lasciarsi andare, un cedere del raziocinio alla fisicità, come nella scena dello stadio o in quella liberatoria del ballo trattenuto che poi diventa tribale e catartico e apre a quel primo bacio, finalmente non solo ricevuto ma anche dato.

E un plauso va riconosciuto anche agli attori. Il giovanissimo Nicolò Cabras è un dolce ma determinato Massimo bambino, l’interessante Guido Caprino un padre troppo duro che non riesce a reagire davanti al dramma e il sempre bravissimo Roberto Herlitzka, un prete che insegna a Massimo a crescere nonostante i colpi della vita. Ma su tutte va ricordata l’interpretazione di Valerio Mastandrea – la cui genuina romanità dovrebbe in teoria stridere con l’ironica compostezza torinese di Gramellini – che risulta credibile grazie ad un lavoro attoriale fatto di sottrazione, di sguardi ed espressioni densi di malinconia e di inadeguatezza.

Lorenza Govoni