Dopo Au Hasard Balthazar, ci occupiamo anche di Mouchette – in occasione delle sue proiezioni al cinema Lumière e in oltre settanta sale in giro per l’Italia. Altro capolavoro di Bresson, e strettamente legato al precedente, che lo anticipa di un anno, Mouchette è intimamente legato al rapporto con il testo letterario di Bernanos. Visto che Bresson è un grande interprete di Bernanos e di altri scrittori, fino ad esserne quasi un critico-poeta in grado di studiare e reinventarne i testi, abbiamo scelto di estrarre da una nota monografia sul regista, scritta da Giorgio Tinazzi nel 1976, questa densa analisi comparativa.

“In Bernanos mi interessa la mancanza di psicologismo letterario”, ha detto Bresson in un’intervista già citata, e in altra occasione ha precisato che in lui “c’è pittura”. Anche se il giudizio risente di un’ottica soggettiva (leggere la Mouchette di Bernanos cogliendo la mancanza di psicologismo letterario è già interpretarla bressonianamente), la dichiarazione del regista ci interessa più che altro per chiarire il processo intenzionale. Il film è stato girato a nemmeno un anno di distanza da Balthazar (cosa rara in Bresson), quasi a mettere in luce che si tratta dei due film più “vicini”, pur nella generale omogeneità dell’opera; in effetti i richiami sono abbastanza evidenti, anche senza cercare forzate analogie: il clima di fondo, alcuni personaggi (Mouchette ricorda Maria, Arsenio Arnold, interpretato dallo stesso attore), la stessa struttura narrativa.
L’andamento è ancora quello della “parabola”, la spinta viene dalla tensione di Mouchette (anche se vaga, ma non meno percepibile), dalla situazione di attesa. La scansione dei momenti ha un ritmo classico, con tipiche elisioni e abbassamenti di tono, anche la musica non sottolinea, affidata solo al brano di Monteverdi nel finale (già sentito all’inizio del film). Lo schema drammatico tende a rarefarsi (a diventare “elementare”), cercando la modulazione continua di poche note; e ciò proprio per dare il tragico dell’abitudine, la dimensione quotidiana, essendo la protagonista una “piccola eroina della quotidianità” (Bresson).
Le linee di sviluppo mi pare si possano rintracciare su tre piani. Il primo, più propriamente narrativo, riguarda l’articolazione in blocchi, che determinano l’itinerario (il paese, il bosco, la casa, ancora il paese, gli incontri); più precisamente si può parlare di divisione in “capitoli”. Il primo dei quali riguarda la collocazione del film: gli altri, il contrasto. Da notare che nel libro manca la prima parte, descrittiva del paese, alcuni luoghi (il caffè) sono rivisti, cioè ricordati, narrati per cenni da Mouchette o Arsenio, altri (il Lunapark) non compaiono. Bresson inserisce prima questa indagine, la amplia, sia per dare le note dell’ambiente sia per definire i personaggi; Mouchette viene perciò dopo la situazione di contrasto. Anche in questo caso è da notate che l’ostilità tra Mathieu e Arsenio è posta all’inizio del film (la caccia di frodo), ed è fatta vedere, quindi messa più in risalto.
Il secondo capitolo riguarda la notte, la violenza e il sogno. Il terzo il fatto emergente, la morte della madre. Dal quale parte la lenta progressione del quarto, la riduzione dell’immaginazione e la forza deterministica della morte. Quello che il desiderio di altro era riuscito a deformare e colorare si smonta, il “ciclone” è stato un semplice temporale; il significato della notte (la forza della “povera” fantasia) è però reso, da Bresson solo allusivamente, mentre Bernanos è assai più esplicito, parlando di “disinganno d’amore”.
Dopo la morte lo sviluppo temporale si concentra, il tempo reale prende tutto il suo peso, la spinta deterministica (“non meno implacabile di quella che regola la caduta di un corpo”, direbbe Bernanos) si traduce in azione. L’incontro successivo delle tre donne è l’impatto col reale, la repulsa del pietismo e dell’inquisizione. E c’è anche una sorta di forza di accelerazione, data dalla visitatrice dei defunti, dalla sua familiarità pesante e ambigua con la morte. Quasi una premonizione, verso il fatto finale, l’ultimo capitolo.
Il secondo piano di cui si parlava è quello della tendenziale “oggettività” del film: il di più di scrittura che c’è in Bernanos lascia il posto a una maggiore freddezza, in un certo senso una riduzione a fatto. Nello scrittore Mouchette vive la tragedia anche come scontro con l’immaginazione (la costante bernanosiana del sogno), nel regista questo è attutito, si scioglie maggiormente nell’evento. Bresson ha tolto gli interventi riflessivi (che mantenne invece nel Diario) per un andamento diverso, da cui scompaiono anche le digressioni interne.
Il terzo piano è dato dal comportamento: quello che in Bernanos è movimento interno di Mouchette diventa comportamento, magari apparentemente “non significativo”.
I tre piani, ma soprattutto gli ultimi due, chiariscono il privilegio dato ad alcuni elementi oggettivi, come le tonalità non drammatiche dei visi, le non sottolineature, gli sguardi (un solo esempio: la sequenza tutta muta dell’abbraccio della madre e dell’uscita di casa); e naturalmente i gesti: a questo proposito va notato come le mani sono gli unici particolari emergenti nei momenti-chiave, e inoltre sono proprio i gesti a denotare l’ambivalenza di Mouchette, la sua aggressività ma anche la sua femminilità (il latte, il fratellino, le lacrime non motivate). Anche Bernanos, singolarmente, richiama le mani: “Ognora intimidita dallo sguardo… aveva scoperto la prodigiosa facoltà d’espressione delle mani umane, mille volte più rivelatrici degli occhi perché non sono altrettanto abili a mentire, si lasciano sorprendere a ogni minuto, occupate come sono in mille faccende materiali, mentre lo sguardo, instancabile vedetta, veglia alle mura delle palpebre…”.

La dialettica è tra questa spogliazione e la contemporanea ricerca di una precisa collocazione, quella campagna, quel paese (il film è stato girato in una località della Vauclause); il paesaggio diventa un microcosmo circoscritto, quel luogo di “chiusura” che altre volte era esplicito. Proprio per rendere questa situazione emblematica Bresson ha bisogno di partire dal dato, alla cui definizione contribuiscono vari elementi, come l’illuminazione, che va dagli sfondi cupi della capanna e del bosco ai grigi quotidiani alle diverse tonalità del paese prima e dopo la notte. Parte preminente hanno al solito suoni e rumori; si potrebbe davvero, a questo proposito, fare una sorta di inventario bressoniano: i passi di Mouchette che entra in classe (la sua “diversità”), il brusio dei ragazzi, l’ostilità dell’esterno (i rumori dei camion che passano fuori dalla casa), i rumori che denotano un ambiente (la scuola, il caffè, la chiesa, il bosco) o una situazione (la festa, con la musica che precede l’inquadratura del luogo), o sottolineano la spinta simbolica (gli animali).
Dar corpo alle cose è una delle vie, già notate, attraverso le quali l’autore, con apparente paradosso, tende alla rarefazione del racconto. Ne risulta (almeno nelle intenzioni) un rafforzamento dell’articolazione tematica, tramata di un pessimismo che rifiuta le consolazioni. Già la prima sequenza dà il peso della situazione, la madre in lacrime di Mouchette (come nel Processo, sottolinea Sémolué, prima dei titoli di testa): “Che ne sarà di loro senza di me? Questo mi colpisce fin dentro nel petto…”. Poi la sequenza del bosco sottolinea l’ostilità e la crudeltà, gli animali: con una accentuazione simbolica anche eccessiva ritornano simmetricamente nel finale, a rinchiudere nel cerchio (il richiamo ai film precedenti è a questo punto naturale); d’altronde per la protagonista lo stesso Bernanos usa espressioni in cui ricorrono similitudini con animali (“Ora che non lotta più, Mouchette ritrova quella rassegnazione istintiva, incosciente che assomiglia a quella degli animali”).
Come un’altra faccia di Balthazar, Mouchette è l’asse drammatico che coordina i vari episodi, attraverso i quali si disegna la preordinazione, l’ineluttabilità del male; Bresson, si sa, è di diverso avviso, e dichiara che il suicidio non è una fine, ma “deriva da un’attrattiva per il Cielo”, ma credo si possa dire sia una sovrapposizione di intenzioni, per ricondurre l’opera a una religiosità personale che, in questo caso, è rimasta seconda – nel concreto dell’opera rispetto al pessimismo di base.
Dietro al libro c’è (pure) un risvolto “politico”; scritto negli anni della guerra di Spagna voleva esprimere anche, a detta dello scrittore, “l’orribile ingiustizia dei potenti”; questo intento manca in Bresson, sia pure nel suo aspetto generale, essendo come sempre attento alla dimensione individuale; né, francamente, vedrei qualcosa di più o di diverso, come fa Cavallaro, il quale sottolinea “il peso rivoluzionario dell’immagine che Bresson, negli ultimi film, dà del mondo attraverso la provincia sordida della Francia gollista”. Perché anche l’attenzione che il regista porta all’altro tema bernanosiano di tipo sociale (“una miseria invalicabile quanto le mura di una prigione”), sembra in realtà essere motivata per il riflesso che porta alla dimensione individuale, e più ancora a una sua considerazione di ordine metafisico.
Bresson è sì attento alla “impronta maledetta della miseria”, ma essa appare più lo sfondo concreto della parabola che una collocazione storicamente – e quindi socialmente – determinata. L’interesse, per intendersi, è più per temi di carattere ontologico, cui risalire dal riversamento esistenziale.
Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, 1976