In corso in questi giorni al cinema Lumiere la proiezione dei capolavori di Yasujiro Ozu. Cinque lungometraggi restaurati dalla Shochiku, storica casa di produzione nipponica, e distribuiti dalla Tucker Film. Il lungo viaggio in Italia di questi film, iniziato a giugno, fa una tappa a Bologna, e dal primo all’otto ottobre saranno proiettati in formato 2K, in lingua originale con sottotitoli. Se c’è una cinematografia che è stata rivalutata troppo tardi dalla critica e dal pubblico, è sicuramente quella nipponica, che si è affacciata debolmente nel contesto internazionale solo negli anni Cinquanta. Ma la produzione giapponese è stata molto viva è ricca fin dagli anni Venti, grazie soprattutto al lavoro dei quattro più famosi registi, tra cui Ozu, che spicca come “il più giapponese di tutti”. Questa rassegna rimedia ad anni di oblio, proponendo sul grande schermo una serie di lavori del Ozu, girati tra il 1953 e il 1962. Il periodo postbellico, per il regista, è caratterizzato da forti cambiamenti che secondo lo studio di Noël Burch hanno condotto il suo stile verso l’accademismo. Sebbene lo studioso veda questi mutamenti in una luce quasi negativa (ma dobbiamo ricordarci di contestualizzare le sue affermazioni all’interno di una rivalutazione critica della produzione fino al 1945), il cinema del tardo Ozu, spogliato da tutti gli artifici tecnici, è stato arricchito dal un sapiente uso del montaggio e dalla caratteristica inquadratura dal basso, segni di un importante snodo stilistico. Questo cambiamento ha coinciso anche con la sua totale dedizione al genere gendaigeki (film di ambientazione moderna), in particolare nella sua forma di shomingeki (dramma della gente comune). Il cinema di Ozu parla delle persone, soffermandosi su storie solo a prima vista semplici, ma che declinano il complesso intreccio di relazioni e sentimenti nel Giappone del dopoguerra. In questo tutte le relazioni tra i personaggi diventano la proiezione dei mutamenti della società, in bilico tra profondo riformismo e attaccamento ai valori tradizionali, gli scontri e gli incontri tra due generazioni così vicine, ma anche irrimediabilmente divise dallo spartiacque degli anni Quaranta.
Viaggio a Tokyo (Tôkyô monogatari, 1953), tra tutti i film proposti, è quello che ha meno bisogno di presentazioni. Eletto nel 2012 tra i migliori film della storia in un sondaggio di Sight and Sound, racconta il conflitto generazionale tra i figli che vivono in città e i genitori che vanno a trovarli dalla campagna, ed è una delle più amare pellicole del regista giapponese. Segue la delicata commedia Buon giorno (Ohayō, 1959), in cui due ragazzini organizzano un silenzioso sciopero per convincere i genitori a comprare un televisore. A questi due lavori si accostano Fiori di equinozio (Higambana, 1958), il suo primo lungometraggio a colori, Tardo autunno (Akibiyori, 1960) e Il gusto del sakè (Sanma no aji, 1962), ultima opera dell’autore. Questi tre lungometraggi offrono la possibilità di vedere da diverse angolature il tema del matrimonio e dei rapporti familiari. Ed è proprio questa apparente somiglianza narrativa tra i vari film una delle caratteristiche più interessanti del cinema di Ozu. Il regista, infatti, sembra narrare incessantemente la stessa vicenda, con piccole variazioni, capaci di mostrare ulteriori e innovativi sguardi sugli stessi argomenti. Raccontando e riraccontando le varie storie, approfondendo e sviscerando la narrazione senza accontentarsi della prima risposta, Ozu apre verso l’universalità le proprie tematiche. Si può notare una profonda corrispondenza tra la narrazione delle sue opere e il suo stile registico, in particolare nell’organizzazione scenica, solo apparentemente statica, ma ricca di piccole variazioni, imprevisti, dettagli visivi, che conducono verso l’apice emotivo.
Come racconta Giorgio Placereani, autore di Autunno e Primavera, volume a supporto della rassegna, l’insieme dei film di Ozu si potrebbe paragonare a un alveare, una struttura in cui ogni cella serve da sostegno e parete alle altre. Li collega fra loro un intenso gioco di rimandi e variazioni, situazioni ritornanti, personaggi simili, luoghi fisici, riprese di battute di dialogo.
Un’occasione speciale per vedere i film di Ozu, caratterizzati da un’essenzialità visiva capace di un forte impatto emotivo. In attesa del 2016, quando uscirà Tarda primavera (Banshun, 1949), il sesto imperdibile tassello di questo lavoro.
Chiara Maraji Biasi