Dopo le aperture con il film di Olmi e il restauro di Moretti, eccoci entrati nel vivo di Visioni Italiane. Cominciamo con la recensione di due film della sezione Visioni Doc.

Biografia di un amore

Durante la realizzazione de La memoria degli ultimi (2014), incentrato sulle testimonianze dei partigiani ancora in vita, Samuele Rossi si è imbattuto nella storia di Germano Pacelli, ex operaio novantenne che ha trovato nell’arte il modo per lenire il dolore causato dal morbo di Alzheimer della moglie, Neliana. Apice di questo percorso, il Monumento alla Solidarietà, un’allegoria ispirata alla sua esperienza in guerra e che vorrebbe installare nella piazza del suo paese (Maresca, provincia di Pistoia). Come il precedente lavoro, Biografia di un amore si fonda sulla necessità e la persistenza del ricordare, che qui si declina nell’economia sentimentale di un matrimonio felice e, in misura meno preminente ma funzionale, sull’incapacità contemporanea di capire il senso del passato. Senza voler riconsegnare allo spettatore un racconto rettilineo, Rossi trova nella malattia la possibilità di sviluppare un racconto bifido. Da una parte c’è il discreto pedinamento della quotidianità dell’anziano protagonista, nel periodo appena successivo alla scomparsa della moglie: nel mettere in scena la solidità e la malinconia di un uomo educato alla sofferenza, il film somiglia ad una delle tante cicatrici di guerra che Germano ha sul costato, la traccia di un dolore mai rimarginabile. Dall’altra, Rossi dimostra una libertà creativa che gli permette di appaiare la realtà (le vere foto della giovinezza e i filmati di famiglia) alla finzione (i fantasiosi inserti animati in cui i due sposini diventano due cartoni in bianco e nero), entrando a sua volta in connessione emotiva con Germano stesso, che ha proiettato nei manufatti artistici la sua visione della realtà. «Devo riempire il vuoto che c’è», dice, tra le lacrime trattenute dall’orgoglio, pensando ai quasi settant’anni di vita coniugale ma anche al mai superato trauma bellico. Il bel titolo è scelto proprio nella prospettiva di una narrazione filtrata da uno sguardo esterno ma empatico. La voce di Lucia Poli, perennemente sospesa tra stupore e consapevolezza, s’incarica di immaginare Neliana prima dell’oblio, individuando il suo grado di autenticità proprio nel testo creato da Rossi. È suo l’interrogativo iniziale che domina e postula l’intero film (“cosa ricorderò di tutto il tempo passato insieme?”), una stratificata, densa, commovente elegia al tempo che scorre, al potere del ricordo, al mistero della fine.

La Ville engloutie

Da quando ha chiuso la fabbrica Kodak, Chalon-sur-Saône, un piccolo centro nella Borgogna, è finita. Una ville engloutie, ossia una città sommersa, in cui forse nessuno si è salvato. Sono stati demoliti palazzi nuovi, molti cittadini hanno perso il lavoro, altri ancora sono scappati altrove, l’umidità devasta le ossa e intanto il fiume trascina quel che resta del passato glorioso. Gloria relativa, a dire il vero, perché, a furia di svuotare scarichi chimici nel canale, il fango sul fondo si è inquinato e il colore dell’acqua, come dicono i marinai che navigano sulle chiatte, cambia in continuazione. Ma, benché siano aumentate le inondazioni e la città si sia trasformata in un arcipelago, gli abitanti sembrano essersi adattati al nulla in cui vivono e, mentre rimpiangono l’odore del reparto e il rumore delle macchine in fabbrica, hanno imparato a riconoscere i segni che preannunciano la stagione delle piogge, si tuffano nel fiume infettato, esplorano l’archeologia industriale.

Se la Kodak ha chiuso per l’avanzata del digitale, a Chalon ci si ancora al grande avvenire dietro alle spalle, interrogandosi sul perché gli esseri umani non si prendano cura dei luoghi che hanno costruito e sulla differenza tra conservare (salvare la memoria degli oggetti dall’oblio) e museificare (rendere gli oggetti le reliquie della memoria stessa). Giunto al settimo capitolo nel viaggio dentro le mutazioni delle realtà urbanistiche, il collettivo ZimmerFrei sceglie un luogo d’inesorabile mestizia, accentuato dallo spettrale bianco e nero di Roberto Beani che si esalta nel riprendere il detrito che galleggia sullo specchio d’acqua quanto un bestiario animale talvolta più interessante di quello umano (i tacchini sui binari, il capretto nero al guinzaglio).

Specie nella prima parte è una corale del disagio che progressivamente rafforza, soprattutto a livello iconografico (i crolli, i vuoti, i tombini, le aree dismesse), la dimensione post-apocalittica di una ipotetica distopia fondata sull’angoscia dell’oblio. Dopo aver messo in scena corpi che si tuffano incuranti del futuro, il film trova nel corpo che non sa stare a galla in piscina la metafora di una città che affonda nonostante i suoi abitanti cerchino di tenerla su. Il colore torna per definire i contorni del presente effettivo, osservando, nei titoli di coda, una muraglia di tronchi accatastati: e, si sa, i tronchi galleggiano, non cadono giù, si salvano.

Lorenzo Ciofani