La rassegna sul cinema francofono, a Bologna, ha permesso di farsi una idea su percorsi, dinamiche e traiettorie di alcuni giovani registi, e della loto cultura transnazionale. 

Nel cinema, ciò che all’occhio umano sfugge, finisce direttamente nell’implacabile mirino della macchina da presa: un terzo occhio artificiale e artificioso che fa, come direbbe Bertolucci, del vero e proprio voyeurismo squarciando la solita e conformistica tela del reale per aprirsi verso un oltre. Ed è in questo oltre che si insinuano tali nuove, eclettiche e audaci voci del cinema francofono che hanno voluto esplorare, con parentesi gnomiche e narrazioni di respiro più ampio, dinamiche dell’io e le sue più disparate vicissitudini.

Da un brusco e rapidissimo movimento di macchina siamo introdotti nella prima vicenda di questa rassegna: in Boutik, un corto che viene dalle Mauritius, il regista Damien Dittberner, con atteggiamento quasi documentaristico, ci presenta la vicenda di rivalsa di questo bambino che ama giocare con dei soldatini volanti e la tenera ingenuità di un’età in cui si ha una percezione così ampia e sconfinata dell’esistenza che ogni distanza tra desiderio e realtà viene annullata, con una prontezza e intraprendenza invidiabili. 

Queste caratteristiche si ritrovano anche nel corto canadese Une bombe (Guillame Harvey), la storia di un gruppo di adolescenti che un pomeriggio decidono di costruire una bomba con una ricetta trovata su internet.  Evasione e bisogno di distinguersi, sintetizzati nel motto “Se non provi mai a fare niente, non otterrai mai niente”, sono le esigenze che caratterizzano l’adolescenza: spartiacque esistenziale dove, benché non si abbia conseguito una conoscenza davvero profonda di sé – che probabilmente non si avrà mai – si cominciano già ad avvertire novità che cambieranno radicalmente il proprio vissuto. Tuttavia, tra i protagonisti, prevale, seppure inconsciamente, il desiderio di fermare lo scorrere del tempo sulla costruzione dell’ordigno esplosivo, cristallizzando in questo momento tutta l’essenza e lo spirito di un tempo che diverrà perduto. 

Si potrebbe dire che le vicende narrate in questi cortometraggi corrano su due archi temporali differenti: c’è l’innocenza giovanile e il tempo del disinganno dell’età adulta, che sopravanza con freddezza in corti come La méthode Greenberry di Baptiste Bertheuil e Ce qui fané, diretto da Samuel Pinel-Roy.

Nel primo, una brevissima ma iconica storia circa le possibilità di sopravvivenza nell’odierno mondo lavorativo, la brutalità del messaggio viene stemperata da un’ironia e sarcasmo volti a fornire una rappresentazione quanto più caricaturale e provocatoria possibile della logica del lavoro d’ufficio: una realtà automatizzata sempre meno disposta a compromessi. Il medesimo tema della psicosi dell’uomo contemporaneo si vede nel corto seguente Nervous Man (Aliouch Conchin), un lavoro d’animazione dove la crisi del protagonista è scandita a colpi di musica elettronica e attraversata dai destabilizzanti e reiterati gemiti dell’uomo: una metafora di odio nei confronti del sistema che incatena e non lascia nemmeno il tempo per respirare.

Ce qui fané è la vicenda di Xavier, un ragazzino cresciuto con la nonna di cui, nonostante la giovane età, si prende quotidianamente cura. A regnare, per un primo momento, è un’atmosfera di calma piatta che ha già in sé, tuttavia, l’annuncio di un qualcosa che la turberà in maniera inesorabile: sarà questo avvenimento che tara sì che il tempo del disinganno prenda il sopravvento sulla piacevolezza delle illusioni del piccolo Xavier catapultandolo in una realtà che per sua disposizione naturale non può ancora comprendere. 

Elvira Del Guercio