Il cinema di Guadagnino è da sempre una questione di nuovi arrivi, di equilibri spezzati, di rapporti con un’alterità tanto spaziale quanto corporea. E We Are Who We Are, nuova miniserie firmata dal regista e prodotta da HBO e Sky, esordisce proprio in questi termini. Fraser è il giovane quindicenne newyorkese catapultato in una base militare americana vicino a Chioggia. Il suo ingresso è silenzioso e indisturbato, non c’è nessun ragazzo a controllarlo da una finestra (Chiamami col tuo nome), nessuno ad accoglierlo nella hall di una scuola di danza (Suspiria) o all’ingresso di un aeroporto (A Bigger Splash). Nessuno ha cura della sua presenza. Pur essendo lui un cortocircuito vivente, sembra piuttosto un fantasma che vaga a vuoto, almeno fino a quando qualcuno – prima la coetanea Caitlin e dopo il militare Jonathan - inizia a notarlo e ad accoglierlo nella propria quotidianità, permettendogli di romperla e, vicendevolmente, di mettersi in discussione, di scoprirsi, mutarsi.
Lo sguardo di Guadagnino è quello di un regista capace di trovare ad ogni sequenza il proprio punto di vista personale, emotivo. Dirige attribuendo significato ad ogni dettaglio (è la stessa poetica che il protagonista Fraser dichiara riguardo al suo stile di abbigliamento, più “slow” che “fast”, e in un senso molto ampio, anche quello di Guadagnino è definibile un cinema “slow”) soffermandosi feticisticamente (come sempre d’altronde) sul particolare, sul trascurabile; intrecciando una serie di momenti, di angoli e di gesti marginali che valgono tutta la serie.
Un coming of age a tutti gli effetti ambientato in un nord Italia che, tralasciando lo sguardo inevitabilmente turistico (le parate, i monumenti ai caduti, i portici di Bologna…), mette in questione le modalità, politiche e culturali, delle varie rappresentazioni territoriali. Le basi militari americane in Italia – già luogo di tensioni diplomatiche - in questo senso, offrono una grande opportunità di incontro/scontro tra immaginari. La caserma Maurizio Pialati (non realmente esistente e costruita appositamente per la serie) ne è l’esempio: geograficamente in Italia, legalmente in America. I ragazzi balzano tra “high school” e bar di provincia, case a schiera e cascine abbandonate, Radiohead e Calcutta. Un paradosso che offre il destro non solo a un elogio dello “sconfinare” religioso, culturale e di genere, ma anche e soprattutto a un discorso geopolitico. “Questa è l’America” dice una delle due madri a Fraser. Lo è nei supermercati, nei prodotti alimentari, negli interni e nei costumi, mentre il resto (il campionato di baseball, il meteo, i dibattiti politici Trump-Clinton...) sta negli schermi, quell’America (fisica, che non si mescola con l’Italia) arriva dallo schermo, sradicata (per usare Benjamin) dal “qui e ora” della sua esecuzione fisica.
A proposito degli Stati Uniti, We Are Who We Are ci parla anche del “sogno” e dei conflitti generazionali. Così come Euphoria (altro titolo HBO, del 2019), questa serie è una messa in scena della morte del sogno americano, raccontata attraverso la Generazione Z: i giovani cresciuti nell’America post undici settembre. Una generazione intera che abita l’America da quando il suo “sogno” è stato distrutto simbolicamente, platealmente, spettacolarmente; che deve affrontare le colpe dei genitori, i fallimenti, le disillusioni. In Euphoria i protagonisti lo fanno emulandoli, fallendo quasi allo stesso modo. Perché non è realizzando i sogni e le speranze del novecento che si fa il futuro, ma esplicitando platealmente il loro fallimento, spettacolarizzandolo e, così, esorcizzandolo.
In qualche modo anche We Are Who We Are ripropone questa autodistruzione (vedi l’episodio quattro) ma, soprattutto, ragiona sull’invisibilità di una generazione che, tra le strade notturne di Bologna, sembra quasi non esistere. Una generazione di fantasmi che scompaiono letteralmente o svaniscono nella nebbia delle prime luci del mattino. Individui che possono essere reali solo nella loro (propria) dimensione e non gliene sono concesse altre. Esistono solo nella percezione di sé, nella loro identità, qualunque essa sia. Esistono solo “qui e ora”, chiunque essi siano.