In questi giorni, una rassegna dedicata alla commedia ebraica a Hollywood ci sta deliziando, per cui abbiamo deciso di riparlare con calma di alcuni dei film in programma, cominciando da Prendi i soldi e scappa.
“What we’ve got here is failure to communicate”. L’ironica frase pronunciata da Strother Martin racchiude l’essenza di Nick Mano Fredda, dramma carcerario del 1967 di Stuart Rosenberg, in cui il sistema penitenziario americano viene descritto come gabbia per ribelli e disadatti, incapaci di sottostare alle regole della perbenista società americana. Due anni dopo, al suo esordio da regista, Woody Allen mette il film di Rosenberg sotto la lente deformante della parodia e il risultato è Prendi i soldi e scappa, prima tappa di un lungo percorso artistico che lo porterà ad imporsi come uno dei geni comici del Novecento. Prendendo a prestito i canoni del documentario sociale, il film racconta le fallimentari imprese criminali di Virgil Stackwell, giovane ebreo newyorchese votato al furto fin da tenera età, suonatore di violoncello e rapinatore di banche mancato, rinnegato dagli austeri genitori e follemente innamorato di Louise, ragazza ai margini disadattata quanto lui.Alla sua prima esperienza da regista si potrebbe dire che il potenziale comico di Allen è ancora grezzo e privo della chiarezza d’intenti delle sue opere più mature, ma i capisaldi della sua poetica sono tutti già qui, esposti in piena vista: la donna, motore trainante della nostra esistenza e portatrice in egual misura di estasi e condanna; la religione, fardello ridicolo trattato alla stregua di una malattia o di un effetto collaterale (memorabile la scena della metamorfosi post vaccino); la famiglia, custode delle tradizioni e incapace di comprendere la diversità delle nuove generazioni; la psicanalisi, tanto assurda quanto necessaria al protagonista per cercare un qualche senso nelle proprie azioni.
A portare avanti il film non è quindi lo sviluppo della trama ma l’accumulo di gag visive e verbali che, a distanza di quasi cinquant’anni, mantengono intatta la loro potenza e sono ormai dei classici dell’iconografia alleniana. Il violoncello suonato durante la marcia della banda, la pistola di sapone che si scioglie sotto la pioggia, il tentato omicidio in auto dentro il salotto della ricattatrice: l’ironico e il grottesco si mescolano e si accumulano senza freni inibitori, dando alla pellicola il tono di una slapstick comedy dei fratelli Marx, omaggiati esplicitamente dalle maschere di Groucho con cui i genitori di Virgil si coprono il viso per la vergogna.
Risate senza sosta, certo, ma con un retrogusto malinconico che nei film successivi diventerà dominante: Virgil è il primo di una lunga serie di outsider, ostinati a vivere controcorrente rispetto al buon senso comune e ad andare avanti nonostante le continue delusioni della vita. Una lunga, bellissima storia di cinema è iniziata, e dal rapinatore Virgil al comico televisivo Alvy di Io e Annie il passo sarà brevissimo.
Francesco Cacciatore