New York, 1962. L’italo-americano Tony Vallelonga (Viggo Mortensen) resta senza lavoro in seguito alla chiusura del locale presso il quale fa il buttafuori. Noto per la ‘sberla facile’, viene assunto come autista e guardia del corpo dell’acclamato pianista afroamericano Donald Shirley (Mahershala Ali), in occasione del tour del suo trio musicale. Nonostante la vena razzista, Tony accetta pur di far fronte alle difficoltà economiche che affliggono la sua famiglia. Inizia così un on the road lungo due mesi attraverso un’ostile America del Sud che accoglie il genio musicale di Donald per poi rigettarlo, spesso con violenza, una volta terminato l’intrattenimento. Nonostante i contrasti e le marcate differenze, tra i due protagonisti nascerà una profonda amicizia dai risvolti epifanici.

Con Green Book Peter Farrelly, per la prima volta senza la collaborazione del fratello, si cimenta in un brillante assolo, che ibrida la commedia anti-politically correct di farrelliana memoria (tra le loro opere si ricordano Tutti pazzi per Mary, Scemo e più scemo, Amore a prima svista) e un lirismo sentimentale che seduce e convince. Candidato a cinque premi Oscar e già vincitore di tre Golden Globe, il lungometraggio entra a far parte della filmografia dedicata alla cultura afroamericana. Tuttavia, l’apprezzamento di critica e pubblico, anche al di fuori del suolo americano, suggerisce che ci sia altro oltre le questioni razziali.

Dunque, se volessimo epurare l’opera dai suoi importanti contenuti politici cosa ne rimarrebbe? Oltre all’indubbia qualità della regia, della sceneggiatura e della spassosa e intensa performance di Mortensen e Mahershala, l’altro di cui sopra potrebbe celarsi nel simbolico viaggio dei protagonisti, capace di valicare le questioni politiche e razziali e suscitare compassione, intesa come partecipazione emotiva. Green Book parla un linguaggio universale, racconta una condizione esistenziale nella quale tutti ci riconosciamo, seppur in misura diversa; è un viaggio metaforico alla ricerca della propria autenticità che obbliga Tony e il Dottor Shirley a rispondere a domande imprescindibili: chi sono? Sono davvero ciò che credo di essere? Che cosa mi definisce in quanto essere umano? La risposta non è certamente insita nella razza di appartenenza o nell'orientamento sessuale.

Sono sufficienti i primi minuti del film per entrare in sintonia con i protagonisti e comprendere le manchevolezze di entrambi. Sono due facce della stessa medaglia. Ricorda il Dasein heideggeriano: L’esserCi, l’essere-nel-mondo in modo autentico. Tony e Donald sono inautentici, seppur in modi diversi. Il primo ha un animo genuino, arricchito da una bontà di fondo, grazie anche a un solido attaccamento alle sue radici e alla famiglia. Ma è rozzo, violento, ignorante. Il secondo è ricco, colto, dotato di intelligenza raffinata ed estro artistico. Eppure non ha radici, non appartiene a niente e nessuno, è solo. Se l’Essere autentico si dà nel Tempo, il lungo tour che li vede coinvolti è necessario per compiere l’arco di trasformazione e conquistare l’autenticità. Il viaggio è scandito da innumerevoli tappe, ciascuna delle quali rappresenta simbolicamente una prova esistenziale per affermare la propria essenza.

Entrambi i protagonisti compiono due percorsi paralleli e complementari. Tony subisce un processo di costruzione. Non è un Essere ma un Ente anonimo capace solo di vivere nel presente; agisce sulla base di impulsi dettati dalla fame, dall’orgoglio, dall’istinto, da un’aggressività logorante. Tali atteggiamenti risultano nocivi non solo per sé stesso ma anche per gli altri. Pur spinto da nobili intenzioni, quali difendere Donald dalle ripetute offese subite, finisce sempre con il complicare la situazione. Grazie alla rettitudine e all’animo virtuoso del musicista, che puntualmente libera entrambi dagli impicci, Tony impara a vivere la propria esistenza in modo progettuale: l’uomo è ciò che sceglie di essere, non una semplice presenza nel mondo che vive di impulsi, cibo e linguaggio scurrile. Può scegliere se ricorrere alla violenza o meno, se rubare o meno, di quale realtà far parte. Ciò che conta è la possibilità di essere altro da sé, se lo si vuole. Allo stesso tempo, il Dottor Shirley compie un processo di decostruzione: chiuso nella sua torre d’avorio, protetto dal confronto con la vita vera, finisce con l’essere passivo e vuoto. È rigettato da tutti; troppo ‘nero’ per integrarsi con i bianchi, troppo ‘bianco’ per essere accettato dai neri. Inoltre, la sua condizione esistenziale è aggravata dal peso di un’omosessualità latente e mai dichiarata. La genuinità di Tony diviene fondamentale: grazie a semplici gesti come mangiare pollo fritto con le mani, il pianista si riconnette alle piacevoli frivolezze della vita. Più importante è l’effetto dell’incrollabile senso di appartenenza di Tony che sprona Donald a rispettare – e a far rispettare - le sue radici.

Gradualmente prende forma il desiderio inconscio del pianista di far parte di qualcosa, oltre alla crescente consapevolezza che tutto ciò che ha costruito è pura illusione priva di fondamenta reali. Benché sembri sicuro di ciò che è, in realtà non lo sa affatto. L’angoscia esistenziale prende il sopravvento e assume valore epifanico. Per la prima volta Donald è attivamente presente, interroga la propria essenza: “Se non sono abbastanza nero, abbastanza bianco o abbastanza uomo, allora cosa sono?". Tale domanda, con la funzione catartica che incarna, rende possibile, in ultimo, il distacco dalle cose materiali e dalla superficialità insita nella ricerca del consenso. A viaggio compiuto, i due amici apprendono il valore dell’esserCi. Non è semplice stare assieme, limitarsi a condividere gli stessi spazi. È cura dell’altro. EsserCi è coesistenza autentica. È dare all’altro gli strumenti per essere libero di prendersi cura di sé, con coraggio. Questo, probabilmente, è l’intrinseco valore filosofico che rende Green Book tanto toccante. E perché no, anche politico, in un momento storico in cui i concetti di cura e alterità sono al centro di conflitti e contraddizioni.