È un grande autore Altman: tornerà dunque ad esserlo agli occhi di tutti.

I protagonisti fu soltanto un'occasione: in realtà il film cui il regista teneva davvero era quel che sarebbe poi uscito come America oggi. Boicottato dalle case di produzione, il suo copione dovette lasciare il passo all'altro, che tuttavia si trasformò a sua volta in trionfo. I protagonisti si presenta come una sorta di enciclopedia, o di dizionario, della Hollywood del suo tempo. Vi compaiono decine di attori e cineasti alquanto noti, talvolta in cameo roles, talvolta interpretando se stessi.

L'effetto è non poco stremante: è norma infatti che l'apparizione sullo schermo di un personaggio celebre nelle vesti di se stesso laceri il tessuto fittizio del film – di qualunque film – lasciando intravedere una piccola porzione di realtà che cozza contro il castello di carte della narrazione filmica. Lo spettatore vaga incerto fra quel che c'è di vero e quel che è invece ancora del tutto inventato nel segmento narrativo che gli si propone. Una casa di produzione, la Paramount, si era addirittura specializzata negli anni '40 in questo tipo di scherzo meta-cinematografico: era quasi regolare, ad esempio, che nei film della serie La strada di... (The Road to...) con Bing Crosby e Bob Hope facesse prima o poi capolino una qualche star che si presentava come se stessa e che con la sua sola presenza mandava i due protagonisti in brodo di giuggiole, accolta con scherzi di carattere professionale, giochi allusivi e via dicendo.

Altman riprende questa piccola tradizione hollywoodiana, che peraltro è alquanto in linea con la forte e importante componente meta-cinematografica dell'intera sua opera (si pensi al caso limite di II lungo addio), ma la utilizza in un contesto nel quale essa risulta più che giustificata e prevedibile (dopotutto, la pellicola si svolge a Hollywood). L'effetto di straniamento, piuttosto, è dovuto alla iterata frammistione di personaggi veri e falsi, di noti attori o cineasti che interpretano qualcun altro e di attori o cineasti altrettanto noti che interpretano se stessi: un accostamento sarebbe in fondo gestibile, ma due, tre, quattro o più accostamenti generano incertezza e confusione.

Altman insomma non rinuncia mai ad inventarsi altri modi di laceramento del testo, di messa in crisi, in dubbio, in questione dei fondamenti convenzionali che lo regolano. Come scrive Emanuela Martini, I protagonisti è il primo film di Altman a ritornare arioso e corale dopo i lunghi anni claustrofobici precedenti (teatrale o meno che ne fosse stata l'ispirazione). Ed è anche il suo primo film corale ad uscire di metafora e a parlare direttamente di cinema.

Sì, perché non c'è dubbio che da Nashville a Pret-à-porter quel tipo di pellicole, oltre ad essere un affresco allusivo della vita nel suo insieme, fossero anche un continuo, pervasivo commento al mondo dello spettacolo, e dunque anche e soprattutto una sineddoche del cinema. Qui il cinema figura per davvero, la piccolezza, la miseria, la vuotezza di quel mondo si pavoneggiano in primo piano giungendo a denunciare la propria definitiva amoralità. Anzi, la pellicola in questione – forse proprio per l'immediatezza di cui si diceva – è quella che più fortemente esibisce il profondo interesse morale del regista, certamente un grande tecnico e un consistente teorico, ma anche un intransigente moralista.

Ma non è soltanto I protagonisti ad esibire in modo chiaro e Incontrovertibile questo suo aspetto. In fondo a ben vedere, tutta l'ultima produzione altmaniana mostra in modo più diretto la coralità dell'autore. Il lungo addio, California Poker e gli altri di quell'epoca avevano certamente un'ossatura morale di notevole spessore (e del resto abbiamo cercato di provarlo e mostrarlo anche in queste righe), ma mai come in questi ultimi anni Altman ha lasciato intravedere tanto chiaramente questa importante componente del suo cinema.

Se si mette a confronto l'immagine della politica, poniamo, in Nashville e Kansas City, non si potrà leggere un più forte coinvolgimento in senso etico nella seconda pellicola; in Nashville la politica e osservata con ironia e disincanto, mentre in Kansas City essa appare con le fosche tinte della criminalità. Allo stesso modo, per quel che riguarda il mondo dello spettacolo, se si confronta Nashville con Prèt-à-porter, non si potrà non notare che gli arrivisti che costellano il primo film non giungono mai alle bassezze di quelli che vediamo nell'altro; e questo non tanto perché oggettivamente vi sia fra loro una differenza, ma soltanto perché è il modo scelto da Altman nel descriverli che è cambiato: famosi o ignoti i musicisti di Nashville sono presentati come risibili nella loro prosopopea o nel loro orgasmo di successo, mentre stilisti e giornalisti di Pret-à-porter si abbassano a compiere atti miserabili e degradanti (o comunque profondamente stupidi).

Altman, insomma, sembra essere invecchiato non nella direzione di una saggia superiorità ironica nei confronti della follia del mondo, ma in quella di una sempre maggiore (e comprensibilissima) intolleranza verso la malafede e la gaglioffaggine, soprattutto in un settore che si propone in termini di raffinatezza, eleganza e sofisticatezza.

Questo non significa che il regista perda o indebolisca la sua mano comica. Anzi, viene da riflettere che nel suo insieme il cinema di Altman è in definitiva sempre e comunque (almeno parzialmente) comico. Infatti, se si escludono le pellicole di ispirazione direttamente psicanalitica e pochissime altre del periodo "claustrofobico" (Streamers, ad esempio) nelle quali le problematiche psicosociali sono accentuatissime, il cinema di Altman mostra sempre, in vario grado, una componente leggera che solleva a tratti anche la situazione più drammatica: da quello che in ultima analisi è anche un film di guerra come MASH a un affresco delta dissoluzione morale americana (e forse non solo americana) come America oggi, non è necessario aspettare opere come La fortuna di Cookie per avere da Altman film che mostrino componenti di carattere comico.

Lo stesso Kansas City, che mi sembra la critica non abbia pienamente compreso e apprezzato, pur presentandosi come un'opera cupamente faulkneriana (il suo inizio mostra addirittura cadenze squisitamente gotiche), è cosparso del resto proprio come non poche opere del maestro del Mississippi – di momenti leggeri.

È possibile che queste frammistioni facciano parte di una tendenza generale verso la dissoluzione dei generi iniziata ancora con la New Hollywood (cioè il momento che in pratica vide l'esordio del nostro regista), ma è anche vero che esse si presentano qui con l'inequivocabile firma altmaniana di una giustapposizione di momenti, scene, situazioni, personaggi contrastanti nel tono e nel trattamento. A differenza; insomma, dalla pratica New Hollywood che vuole sulla scena un personaggio tragicomico, Altman costruisce situazioni di forte tensione ed insieme momenti di sconsiderata leggerezza da parte di un qualche suo personaggio in modo da allentare quella tensione, sì, ma da non comprometterla con una contaminazione di atmosfere.

È tuttavia vero che questa prassi si rileva più fortemente nell'ultima parte della sua produzione, laddove in precedenza la svagatezza di personaggi e situazioni coinvolgeva molto di più il suo cinema. In altre parole, nella sua prima produzione vige un tono comico più deciso, mentre in questi ultimi anni, esso si alterna con quello che è probabilmente risultato di un pessimismo sempre in crescita nel suo cinema. Non credo sia questa però la cifra di maggior interesse che l'evoluzione della sua opera offre, Altman rimane un innovatore primamente e soprattutto nella concezione strutturale del film, probabilmente l'autore americano più importante nella nuova impostazione della narrazione determinata dal giro di boa del postmodernismo. In un'epoca di imperante (e breve) nuovo realismo egli fece proprie e rielaborò istanze che la narrativa statunitense in prosa aveva adottato e studiato nello stesso decennio del suo esordio per poi portarle nei '70 a inusitate vette sperimentali. Dove e come questo rapporto – o comunque questo collegamento - si sviluppò è cosa difficile da indicare.

Un romanzo come La festa di Gerald di Robert Coover, ad esempio, mostra enormi somiglianze (ovviamente nel linguaggio prosastico che gli compete) con uno qualunque dei film corali di Altman: dire chi ha influenzato chi, ripetiamo, è cosa impossibile. L'osmosi fra romanzo e film in questi ultimi decenni ha preso forme e modi che rendono impervia ogni filologia. Ed anzi in un'epoca in cui i vecchi apocalittici tuonano contro il primato dell’immagine è bello pensare che fuori da un'accademia troppo spesso polverosa e muschiata due forme d’arte narrativa si osservano, si studiano in totale serenità e traggono l'una dall'altra ciò che ritengono meglio loro s'addica per un sempre più intelligente e cosciente sviluppo dell'una e dell'altra.

Altman ha percepito prima di ogni altro la nuova atmosfera è l'ha presentata nei termini a lui più congeniali. Egli ha avvertito la crisi dell'identità che travagliava e ancora travaglia la nostra contemporaneità. Per questo già nei suoi primi film si moltiplicano i nomi (le varie Barbara di California Poker, ad esempio), si articola un medesimo brano musicale secondo gli stili più diversi e sempre adeguati alla situazione mostrata sullo schermo (la canzone titolare in Il lungo addio, ad esempio), si amplia a proporzioni d'affresco riquadro senza che nessun personaggio vi venga proposto come protagonista ma soltanto come tessera di un enorme mosaico (Nashville, per esempio), si organizza il tema centrale costruendovi ogni volta attorno elementi di diversione che non ne permettono la piena visione (le rapine in Gang, ad esempio), si monta un intero e lungo film attraverso frammenti minimi narrativamente non connessi in modo da bloccare sul nascere l'identificazione con i personaggi e le situazioni senza che per questo ne venga infirmato un giudizio morale (America oggi, ad esempio). Tutto insomma nella sua opera contraddice le usuali strutture costruttive e ricettive, tutto emerge come un immenso sforzo di rivedere i canoni cui ci aveva abituato un cinema che non è più e che pure noi continuavamo a pensare vivo.

Altman si è preso sulle spalle il difficile compito di traghettarci verso altre dimensioni della narratività cinematografica, e c'è riuscito nonostante tutti coloro che in buona o in malafede l'hanno avversato. E l'ha fatto pur sapendo che "comunque vada siamo in trappola", pur sapendo che, indipendentemente dalla sua riuscita, il mondo non sarebbe cambiato. Sarebbe cambiato soltanto il nostro modo di osservarlo e pensarlo, che è l'obiettivo cui tende ogni vero artista, ogni vero innovatore: l'unica rivoluzione che ormai ci è concessa.

(Franco La Polla, Cineteca, novembre-dicembre 2000)