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“L’odio” e l’epicentro dell’ingiustizia

L’odio è visivamente un film ruvido, di forti contrasti e contraddizioni destinati a non trovare una sintesi. Da un lato la periferia degradata, ma luminosa e accogliente, dall’altro la Parigi bene, immortalata con ammirazione in centinaia di opere, che diventa qui il tenebroso epicentro dell’ingiustizia. È allarmante che dopo quasi trent’anni L’odio rimanga un film attualissimo. Casi di cronaca riguardanti la brutalità della polizia si sprecano e ogni volta ci si avvicina a quell’atterraggio profetizzato da un giovane autore poco più che esordiente. 

“Perfect Blue” e il cinema come infinita macchina dei sogni

Affine al potere rivelatorio di Bunuel e dei surrealisti, il cinema di Kon elude il senso razionale per lasciar emergere le densità dell’inconscio; i suoi film mettono al proprio centro la soggettività – dei personaggi quanto dello spettatore – e sovvertono i modi convenzionali della narrazione mediante ellissi, flashback, dilatazioni e contrazioni temporali. La realtà è elaborata da ricordi e immaginazione, acquisendo le forme del sogno.

“L’arpa birmana” che riconosce l’umano in ogni cosa

In quanto testimone isolato degli effetti disumani del conflitto Mizushima si sente chiamato al lavoro definitivo della pietà: seppellire i morti, i morti sconosciuti e dimenticati che affollano le valli e le coste della Birmania, i morti che non appartengono più a nessuno. Così impara a riconoscere l’umano in ogni cosa, nel volto di un bambino cui insegnare a suonare il suo strumento, nelle ossa incrostate di fango al bordo di un fiume, nel pappagallo che gli sta sempre appollaiato sulla spalla, in un rubino trovato per caso nello scavare una tomba.

“Scarface” ossessivo, melodrammatico e seducente

“The world is yours”, leggiamo sul mappamondo dorato che si trova nell’atrio della lussuosa villa di Tony. Ma se durante la sua ascesa quel yours si poteva leggere al singolare, preannunciando l’avverarsi del sogno americano, nella caduta a chi si riferisce? Di chi è il mondo? Se alla fine nel film di Hawks il mondo non era più solo del suo villain ma anche dei poliziotti che lo giustiziavano e della società che si doveva fare carico del problema criminalità, nel remake di De Palma pare non esserci alcuna forma di speranza, giustizia o redenzione.

“Matti da slegare” ancora oggi

Matti da slegare è un documento storico che parla di una determinata epoca e di un esperimento cinematografico che abbraccia contenuto e formula produttiva. Questo non significa, tuttavia, che questo carattere di testimonianza storica ne esaurisca il valore. A guidare i quattro autori, come dichiarato nella nota introduttiva, è la ferma convinzione di far parlare i pazienti senza “ripulire” i loro discorsi e normalizzare la “‘diversità’ del parlato proletario”. Non c’è, quindi, il tentativo di un approccio asettico e che rivendica oggettività.

Lo specchio scuro nel cinema di Saverio Costanzo

Il cinema di Saverio Costanzo è uno specchio scuro, un riverbero di recondite paure e desideri, un’illuminazione di volti in perturbante/trepidante attesa. I titoli delle sue opere sembrano enunciazioni programmatiche che esprimono introverse e cupe riflessioni non più procrastinabili e mai condivisibili. I protagonisti di queste storie hanno sete di un’innocenza perduta che si tramuta in immaginifica ossessione foriera di un’inquieta e perenne disillusione. 

“Suspiria” di Argento e l’estetica di Tovoli

Noto principalmente per le sue collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Tovoli si trovò proprio con Suspiria ad avere a che fare per la prima volta con il genere horror. Ciò rappresentò una sfida non indifferente per un artista che mai aveva preso parte ad una produzione di questo tipo, ma d’altro canto si rivelò anche motivo di fascino per la gamma di possibilità che un genere fantastico poteva offrire dal punto di vista visivo. 

In memoria di Sandra Milo

Sandra Milo ha avuto il coraggio di essere una donna diversa (o l’altra donna) in tempi in cui l’unico ruolo femminile ammissibile era quello di moglie e madre, di passare per sciocca, per poter dire ciò che voleva, di vendere (consapevolmente) l’immagine provocante del suo corpo, per incitare le donne ad una maggiore libertà nell’espressione libera e soggettiva della propria sessualità. “Ho vissuto come ho voluto, sempre. Sono fortunata perché non ho rimorsi né rimpianti”, ha detto poco tempo fa. 

A proposito di Vigo, secondo Truffaut

Riprendiamo in esame alcune delle riflessioni di François Truffaut su questo cineasta divenuto oggetto di culto per cinefili e registi. “Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noir animato da André Bazin. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione”.

“Stranger Than Paradise” 40 anni dopo

L’occhio “malincomico” di Jarmusch de-territorializza luoghi e ambienti con un bianco e nero dalla luce abbacinante (splendida la fotografia iperrealista di Tom DiCillo) che rende “i posti un po’ tutti uguali” con un clima di glaciale umorismo e di poetico grigiore. Certamente affiorano influenze di quel surrealismo che il cinefilo ragazzo di Akron (Ohio) studiò a Parigi, affascinato dal pensiero di André Breton che affermava: “la letteratura è una delle strade più tristi che portano dappertutto.”

“Il cacciatore” e il cinema tra ragione e follia

Michael Cimino, come in altre occasioni durante la sua carriera, non ebbe vita facile durante la lavorazione de Il Cacciatore. Le difficoltà produttive furono varie, la ricerca delle location in Thailandia fu molto complessa, le condizioni climatiche a volte sfavorevoli rallentavano la lavorazione e ci fu un colpo di Stato durante le riprese, anche se questo non portò seri problemi in quanto il comitato rivoluzionario garantì la sicurezza della troupe. In aggiunta vi furono lotte tra la produzione e Cimino che, “come Penelope”, di notte reintegrava le parti mancanti.

Il cinema degli anni Ottanta o della realtà prima del multiverso

Con film come La storia infinitaNightmarePoltergeist e altri, pur nel solco di una tradizione narrativa che possiamo far risalire almeno al carrolliano Alice nel paese delle meraviglie, qualcosa è cambiato. Non si tratta solamente più di un sogno. All’altezza degli anni Ottanta quella che si dovrebbe chiamare realtà inizia a sgretolarsi, i confini del reale si fanno sempre più labili e incerti. Che sia una risposta all’evoluzione tecnologica della società, alla penetrazione dei media nella quotidianità, della progressiva e vertiginosa virtualizzazione dell’esperienza umana è tutto da dimostrare.

“Nightmare” 40 anni dopo

Nightmare non costruisce la sua tensione sui pur presenti jump scare ma sulla graduale alterazione delle regole basilari dello spazio-tempo ordinario, ovvero tramite la progressiva materializzazione del suddetto perturbante di freudiana memoria, che si applica non tanto alla figura del mostro/assassino quanto piuttosto alla terrificante interazione tra i sogni e la realtà. Wes Craven, nella sua genialità, gioca sul fondamentale bisogno che l’essere umano ha di dormire per renderlo vulnerabile alle aggressioni della sua creatura

Il meglio del 2023 secondo i redattori

Anche quest’anno – dopo aver pubblicato la classifica generale – offriamo i 5 film preferiti (in ordine alfabetico) dei nostri redattori. Si conferma la ricchezza dell’offerta cinematografica di questa stagione. In ogni caso, le preferenze espresse dai redattori di Cinefilia Ritrovata possono fungere anche da guida appassionata per una stagione cinematografica tutta da riscoprire anche nei prossimi tempi. 

I migliori film del 2023

Vince un grande maestro della storia del cinema contemporaneo (Martin Scorsese) ma inseguito da una regista, Justine Triet, che in qualche modo conferma e rappresenta una stagione di registe in grado di scuotere il panorama (come appunto Cortellesi e Gerwig). Il genere fa capolino con Sorogoyen, il cinema d’autore e d’essai con Kaurismaki, mentre ben due film italiani in top 5 raccontano diverse generazioni di narratori (Rohrwacher davanti a Moretti). 

“Bianca” doloroso e dolce

Bianca è per Moretti un film di cambiamento, di maturazione, di passaggio dalla costruzione completamente rapsodica dei primi film a una sceneggiatura maggiormente costruita e inserita nelle strutture di una sorta di ‘giallo’ morale. Ma Nanni non si normalizza e non si addomestica, anzi. Perché Bianca è anche il film in cui l’umorismo satirico del regista si carica di dolore e feroce rassegnazione, quello in cui Moretti scava di più nei lati oscuri del proprio personaggio

“Piccolo Buddha” e l’innocenza del cambiamento

Se Piccolo Buddha è un film dichiaratamente didattico, è anche il contraltare dell’approccio hollywoodiano verso le altre culture. Nel suo essere manifestamente ingenua, nella sua rinuncia a un certo tipo di sottotesto, la favola di Bertolucci è una scelta di campo. Più pasoliniana, sotto alcuni aspetti (anche estetici: molte location sono le stesse de Il fiore delle Mille e una notte), cerca nella consulenza di Dzongsar Jamyang Khyentse Rinpoché – il vero Lama Norbu, che dopo l’incontro con Bertolucci diventerà il primissimo regista buthanese – un’autenticità che smascheri i limiti di uno sguardo dualista.

Ryan O’Neal il duro non balla più

La carriera di Ryan O’Neal ha attraversato molte forme e diversi generi del panorama mediale contemporaneo. Dalla soap opera che lo ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo degli anni ’60 all’inaspettato successo nel ruolo del ricco rampollo innamorato Oliver Barrett IV nel blockbuster strappalacrime per eccellenza degli anni ’70, dall’approdo ai film d’autore fino al debutto teatrale e al ritorno alla televisione negli anni 2000, O’Neal ha continuato ad essere, nell’arco di sessant’anni, uno dei volti più noti dell’industria cinematografica e televisiva americana.

“Funny Games” e l’ossessione del dolore

Funny Games, nonostante la televisione a tubo catodico e il telefono cellulare con antenna esterna, risulta estremamente contemporaneo nell’evidenziare il distacco emotivo che lo spettatore, saturo di crudeltà, prova nei confronti della sofferenza altrui che sembra, poiché trasmessa mediaticamente. È forse il caso di riprendere la discussione sul confine tra realtà e finzione che Paul e Peter intrattengono sul finale dell’opera di Haneke?

“Viaggio a Tokyo” 70 anni dopo

È un Paese, quello di Ozu, negli anni dell’occupazione americana. Un Paese che cambia e nel cambiare abbandona anche i suoi valori più autentici come il senso dell’accudimento, il ritmo lento della vita, il rispetto dei rituali. Il regista ne ha nostalgia, ne soffre; eppure, il suo cinema “gentile” – come lo definisce Kaurismäki – ha una narrazione che non contiene conflitti, non ci sono buoni e cattivi da una parte e dall’altra. Si fa fatica a non giudicare i personaggi di Ozu.