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La saga aliena oltre la filosofia del fantahorror

Tornano in sala per tre giorni Alien e Aliens – Scontro finale, distribuiti da Lucky Red. Per omaggiare questi due capisaldi della fantascienza dedichiamo qualche riflessione alla saga che hanno inaugurato, fra le più originali e influenti nella storia del genere. Essa rappresenta un grande esempio di fantascienza in grado di proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e riflessione su temi filosofici, sociologici e tecnologici.

“Paper Moon” 50 anni fa

Bogdanovich ci dimostra di poter usare il cinema per una riflessione diacronica e sincronica. L’anno prima di Paper Moon, il regista aveva diretta Ma papà ti manda da sola? sorta di remake di Susanna! (1938) e, nel 1971, in L’ultimo spettacolo aveva raccontato la fine di un certo stile cinematografico attraverso la sua stessa metafora spettatoriale. Questa caratteristica cinefila si manifesta in maniera ancora più deflagrante nella pellicola del 1973 dove la contrapposizione donna-uomo diventa momento di riflessione sulla storia del cinema e dell’intera società americana.

“Lo spirito dell’alveare” e l’infanzia della cinefilia

Attraverso un trauma storico (la guerra civile spagnola) Erice mette in scena un trauma percettivo prodotto dalla nascita del cinematografo. A partire dal fascismo franchista viene messo sotto accusa l’eterno fascismo dell’esperienza adulta. Quel mondo adulto che preferisce spiegare piuttosto che vivere le proprie esperienze, che non prova più meraviglia per l’avvento di un treno. Lo sguardo cinefilo allora rimane l’ultimo baluardo in età adulta di una disposizione infantile all’esperienza.

“Il mondo sul filo” 50 anni fa

Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

“Toro scatenato” fuori dal sogno americano

“Datemi un’arena, Jack il Toro si scatena”. Non sempre. Non solo cazzotti, ma anche gangsterismo, religione e musica. Le note di Pietro Mascagni assolvono “Bob-Jake” dalle sue colpe mentre viene massacrato sul ring. L’arena sembra quasi trasformarsi in un confessionale dove fare i conti con paure e pulsioni e dove pentirsi: Jake Vs LaMotta. I pugni devono fare male, i duelli non debbono mostrare la tecnica. La mancanza di strategia elegge il combattimento di boxe a categoria dello spirito.

Del mito e dell’eroe. La decostruzione di Rocky nella trilogia “Creed”

La trilogia di Creed ideata da Coogler diventa più che un’astuta operazione di marketing per sfruttare l’ormai appannata fascinazione del “marchio” Rocky facendosi vero e proprio smantellamento del mito del suo protagonista. Una rivisitazione che, pur rispettosa del personaggio, porta il discorso su altri territori nuovi e distanti dalle dinamiche originali. Un rinnovamento dell’idea stessa dell’America che tenga conto di una realtà ben più complessa e articolata con cui ora è inevitabile fare i conti.

“Martha” 50 anni fa

Compreso tra la La paura mangia l’anima, rifacimento proletario di Secondo amore di Sirk, e l’incursione ottocentesca di Effi Briest, Martha porta in ambienti prima barocchi poi goticheggianti una vicenda di rieducazione perversa e vampirismo coniugale, magari influenzata dalle due regie ibseniane del periodo (Hedda Gabler al Freie Volksbühne di Berlino nel dicembre ’73 e Nora Helmer, adattamento di Casa di bambola per il piccolo schermo), e calata in un’atmosfera noir, derivata dal racconto di Cornell Woolrich cui è liberamente ispirato il soggetto.

“Lady Snowblood” 50 anni fa

Lady Snowblood, un revenge movie in chiave chanbara dai colori pop, ricoperto da quegli schizzi, o meglio, spruzzi di sangue che avevano iniziato a sgorgare nella scena finale di Sanjuro (Kurosawa, 1962), è un film che insegue il fumetto ed è tratto da un manga gekiga del 1972-73 che a sua volta insegue il cinema, disegnato da Kazuo Kamimura, il “pittore dell’era Showa”, divenuto celebre per le sue eleganti figure femminili cariche di erotismo, talmente cariche che Lady Snowblood viene considerato seinen (v.m. 18, diremmo noi).

“La città verrà distrutta all’alba” 50 anni fa

Prima che il nome di Romero venisse associato indissolubilmente ai suoi film di zombie, l’autore statunitense dirige una piccola gemma del cinema fantapolitico: La città verrà distrutta all’alba. Il film racconta di un’arma chimica caduta accidentalmente nei pressi di una cittadina della Pennsylvania e dell’escalation di violenza che ne consegue. È proprio nella risposta dei personaggi alla repressione militare che emerge la personalità autoriale del regista, che non si limita a criticare le iniquità insite nelle strutture di potere, ma analizza l’inconscio collettivo statunitense. 

“Come eravamo” 50 anni fa

Nonostante il lungometraggio di Pollack sia così perfettamente calato nel suo tempo e proponga evidenti e precisi riferimenti storici, l’amore che viene portato in scena trascende la periodizzazione dell’opera e commuove anche lo spettatore contemporaneo. Come eravamo è un chiaro esempio di perfetto equilibrio registico tra una recitazione drammatica e divistica – comunque capace di trasmettere con sincerità le emozioni – una sceneggiatura non eccessivamente patetica

“Le due sorelle” 50 anni fa

Nel 1973 De Palma girò Le due sorelle, thriller al femminile e horror psicologico che anticipa molti elementi tematici e alcuni stilemi del suo cinema immediatamente successivo: le morbosità familiari di Complesso di colpa, la paura della sessualità femminile in Carrie, lo split screen inimitabile di Blow Out, lo sdoppiamento patologico in Dressed to Kill, e ancora il dichiarato voyeurismo della soggettiva, i colpi di scena suggeriti dai giochi d’ombre e le ossessioni private di tanti suoi personaggi a venire.

“Sussurri e grida” 50 anni fa

Bergman riesce a mettere a fuoco le dinamiche e i conflitti provenienti dai traumi del passato, celebrando un disperato cerimoniale femminile in uno spazio liminale tra la vita e la morte, organizzato secondo rapporti di simmetria assiologica: Agnes, la sorella in fin di vita, è come la sua devota domestica Anna, affamata d’amore umano e divino, mentre Karin e Maria appartengono alla schiera delle peccatrici senza Dio.

Chi è il colpevole? Note sul recente cinema italiano

È come se il cinema italiano, in film come Gigi la leggeMixed by Erry, L’ultima notte di Amore non fosse in grado di guardare in faccia il colpevole. Lo tiene in disparte. Non sa chi è, anche se spesso sembra trovarlo nei piani alti, nei poteri segreti e impuniti. Atterrito in un oceano di complessità, sembra trovare una sua onestà nel racconto del colpevole minore. Riduce i fatti a questioni private (il confronto tra Milano e Amore è schiacciante) e personali (amore in Mixed by Erry e famiglia in L’ultima notte di Amore).

“La stangata” 50 anni fa

Nell’interstizio tra la crisi del cinema delle major e la svolta generazionale del pubblico si inserisce un film come La stangata (1973) di George Roy Hill, un fenomeno cinematografico che forte dell’appeal dei suoi protagonisti, Paul Newman e Robert Redford, segnala certe tendenze di una Hollywood nostalgica ma allo stesso tempo briosa, ancora oggi entusiasmante nel suo equilibrio tra innovazione e continuità con i linguaggi della tradizione.

“L’esorcista” 50 anni fa

L’esorcista può essere analizzato come un horror da camera in cui convivono stilemi classici del genere (la discesa dalle scale di Regan come un ragno, la camera spettrale in cui si consuma l’esorcismo), soluzioni vicine allo splatter “new horror” (la scena della masturbazione, i liquami emessi dall’indemoniata) e una tensione emotiva sotterranea che fa percepire nevrosi e traumi del quotidiano attraverso la metafora della possessione.

Gli Oscar 2023 e la diversificazione del gusto

Se per A24 Everything Everywhere All At Once è motivo di vanto per l’ottenimento del maggior numero di premi cinematografici da un film, nonché per gli importanti incassi registrati nella sua poco più che decennale storia, è comunque chiaro che ci si trova di fronte a un definitivo riassetto delle preferenze sempre più lontane dai canoni classici dell’Oscar bait, iniziato nel 2017 con Moonlight. A causa di una sempre più innovativa qualità tecnica, di una certa commistione tra generi e una diversificazione del gusto, prevedere la vittoria di un film con certezza matematica sarà sempre più difficile.

Uno, nessuno, centomila Philip Marlowe

Nessuna cicatrice visibile. Capelli castani, con qualche traccia di grigio. Occhi marroni. Un metro e ottanta per ottantacinque chili circa. Nome: Philip Marlowe. Professione: detective privato”. L’identikit – che in realtà ci dice assai poco di Marlowe e forse volutamente – è quello che Raymond Chandler tratteggia nel suo Il lungo addio, sesto romanzo, uscito nel 1953, con protagonista il famoso investigatore privato. Una descrizione vaga ma preziosa, per tutte le trasposizioni cinematografiche.

“Mean Streets” 50 anni dopo

“Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista”. Il neoadolescente Martin Scorsese, bloccato tra le mura di casa per via dell’asma, guarda dalla sua finestra il formicaio umano di Little Italy e i goodfellas che ne popolano le strade

“Frankenstein Junior” tra ironia e cinefilia

 “Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più – caso mai lo si fosse dimenticato – che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista.  Dopo quasi 50 anni dalla sua prima uscita, stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, funzionino ancora alla perfezione.

“Scene da un matrimonio” 50 anni fa

L’11 aprile 1973 la SVT2, il secondo canale svedese, trasmette il primo episodio di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, serie che per le successive sei settimane avrebbe tenuto compagnia al pubblico televisivo. A cinquant’anni dalla sua messa in onda forse il lato più interessante è proprio interrogarsi sulla capacità di Scene da un matrimonio, pur nella sua singolarità stilistica e narrativa, di presentarsi come racconto universale sulle relazioni umane e dunque di farsi modello per tante altre narrazioni.