Eyes Wide Shut (1999) si conclude con Alice (Nicole Kidman) che dice al marito che l’unico modo per risanare il rapporto è “Scopare”. In Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971) Alex De Large (Malcom McDowell), dopo i patimenti psicologici della cura Lodovico e le violenze fisiche subite dalle sue ex vittime e un tentato suicidio, tornato sano (ha riacquisito il libero arbitrio) e benvoluto dalle istituzioni, ha la voluttuosa visione di una paradisiaca e liberatoria “scopata” con una bella pulzella.
A questo ritorno al caro vecchio “su e giù” assistono ai lati un ristretto pubblico voyeur – che compiacente applaude la performance di Alex – in abiti settecenteschi. 18esimo secolo che era apparso in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) come l’ultimo stadio del viaggio allucinato e di svelamento dell’astronauta David Bowman (Keir Dullea). Il suo modulo spaziale giunge in una stanza arredata in stile Neoclassico. E 1700 che Kubrick, dopo metodici e dettagliatissimi anni dietro il tentativo di trasporre sul grande schermo la vita di Napoleone, lo rappresenta magnificamente nel pregiato tableau vivant Barry Lyndon (1975), il cui il protagonista Barry (Ryan O’Neal) condivide con Alex la passione per il “su e giù”.
Alex De Large, l’irrequieto adolescente protagonista della vicenda, però non è mosso soltanto da appetiti sessuali, ma anche dal gusto della (ultra) violenza, attuata sempre con fare goliardico. Aggressività che è insita nell’uomo e ha “permesso” l’evoluzione umana, come mostrato nel già citato 2001, nel quale un ominide diviene “leader” (capobanda) dopo che ha scoperto come un semplice osso possa divenire un’arma letale, uccidendo un suo simile e stabilendo così l’ordine gerarchico. Da quell’osso distruttore, attraverso un’ellisse cine-storica di millenni, si arriverà ai viaggi spaziali.
La civiltà umana, secondo Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke è fondata sulla prevaricazione, sulle uccisioni. Non a caso Alex, per ristabilire le gerarchie di comando nel suo gruppo di drughi, improvvisamente li attacca con buffonesca violenza (commentata dall’uso in colonna sonora di un’aria de La gazza ladra di Rossini). Quel preistorico osso è ora un rigido bastone (di stile settecentesco) che nasconde finanche un pugnale. Aggressività – e sessualità – che poi si paleserà maggiormente in Full Metal Jacket (1987), attraverso i soldati (allupati) e in particolare con il nerboruto Animal (Adam Baldwin), che si eccita nell’uccidere i musi gialli.
E, restando a Full Metal Jacket, geometrico viet-movie pacifista, è necessario soffermarsi sul personaggio di Joker (Matthew Modine), che come ben evidenzia il suo soprannome ama essere beffardo. Sul suo elmetto ha posto sia la scritta “Born to Kill” (titolo originale del romanzo di Gustav Hasford) e sia una spilletta della pace. Un dettaglio contraddittorio per porre in evidenza il dualismo umano, come già poneva in rilievo il primo lungometraggio di Kubrick. Paura e desiderio (Fear and Desire, 1953) è un acerbo pamphlet pacifista nel quale Kubrick già traccia i basici lineamenti pulsionali dei personaggi che poi realizzerà con maggior profondità in seguito. Quella sparuta pattuglia, composta di quattro soldati, oltre a cercare il proprio campo base e a difendersi, perpetua animalescamente violenza sessuale a danno di una povera ragazza. Come faranno poi – con ugual gusto – i drughi.
Con questo zigzag introduttivo non si vuole porre Arancia meccanica come punto di arrivo (e di partenza) del cinema di Kubrick, ma solo accentuare come il suo nono lungometraggio sia un proseguimento delle sue “ossessioni”. Tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess, pubblicato nel 1962, il libro giunse nella biblioteca di Kubrick casualmente. Durante la lunga lavorazione di 2001 Terry Southern, co-sceneggiatore de Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964), gli lasciò una copia – edizione americana – del romanzo.
Terminata l’estenuante realizzazione di 2001, Kubrick cercò un nuovo progetto. Ed ecco che rimase affascinato da questa storia ambientata in un prossimo futuro distopico. Trasposto dallo stesso Kubrick in solitaria, rispetto alla precedente pellicola Arancia meccanica fu realizzato velocemente e in economia. Quasi fosse un’opera direttamente appartenente al Free Cinema inglese. Corrente cinematografica di cui McDowell fu uno dei massimi rappresentanti scenici, prima come iconoclasta studente in Se… (If.., 1968) di Lindsay Anderson e poi come sfortunato “Candido” in O Lucky Man! (1973) sempre diretto da Anderson.
L’adattamento di Kubrick resta fedele al romanzo di Burgess, mantenendo la voce narrante del protagonista e trasformando in immagini quella carica immaginifica che Burgess esprimeva in forma scritta. Kubrick ha dovuto sfoltire poco dalla storia originale, togliendo soltanto alcune scene oppure comprimendo le suddette in un’unica soluzione: Alex, dopo la cura Lodovico, viene pestato da un gruppo di barboni, poiché riconosciuto dal clochard che aveva subito violenza dai drughi. Mentre nel romanzo Alex è riconosciuto e malmenato da un bigio uomo “topo di biblioteca”. La riscrittura kubrickiana invece è nella resa cinematografica, restando in equilibrio tra “allegoria” narrativa e realtà sociale.
Realizzato totalmente in set naturali, sfruttando i quartieri urbanistici periferici di Londra che rendessero tanto l’aspetto avveniristico quanto il degrado sociale, soltanto tre set sono stati ricostruiti in studio. Partendo dall’occhio spiritato di Alex, la lenta zoomata all’indietro (riutilizzata poi in Barry Lyndon) svela l’ambiente culturale in cui Alex ama stare. Il Korova Milk Bar è espressione di quel cupo futuro decadente e opprimente, con sculture femminine in posizioni sessuali che allettano (e allattano) i drughi.
Quattro ragazzi, di cui il corpulento Dim (Warren Clarke) pare l’anello di congiunzione tra gli scimmioni preistorici e l’uomo, che si dilettano a praticare violenza e stupri. Scorribande notturne che possono terminare in lotte tra gang, coreografate come fossero un balletto (ad esempio lo scontro con la ghenga di Billyboy o il regolamento di conti tra Alex e la sua banda); oppure uno stupro come se fosse un tetro e distorto musical americano, ritmato da Singin’ in the Rain, noto motivetto inserito casualmente nel film, perché a McDowell venne in mente quel refrain. Tra l’altro, ritornello già usato, in maniera maliziosa, anche da un fischiettante Cary Grant in Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock nella scena del bagno in camera.
L’aspetto grottesco della vicenda è rappresentato da Kubrick appunto con l’utilizzo della musica. La colonna sonora è composta sia di brani classici sia di rimaneggiamenti elettronici ad opera di Walter Carlos (successivamente, post operazione, Wendy Carlos). Il vandalo Alex è un patito della musica classica, genere che lo manda in estasi. La Nona di Ludovico Van (Beethoven) è la sua “hit”, e l’utilizzo della musica classica pone l’accento sul benessere psico-fisico di Alex, mentre la rielaborazione elettronica rappresenta l’iter angosciato post cura Lodovico, che amplifica la sua sofferenza interiore.
E rappresentazione grottesca che Kubrick concreta non soltanto attraverso il variegato commento musicale, ma con altri artifizi, ottici e di montaggio. Lo smodato uso del grandangolo, che distorce ambienti e personaggi, oppure la scena di Alex che invita due ragazze in casa per del dolce “su e giù”. La scena, commentata dalla versione elettronica dell’Overture di Guglielmo Tell di Rossini, è girata a fotogrammi accelerati come se fosse un derivativo dello slapstick muto. Mentre, di converso, lo scontro tra Alex e i ribelli drughi è rallentata, rendendola tanto ironica quanto “epica”.
Quello che invece non c’è, ma di cui Kubrick seppe soltanto a film ultimato, è l’ultimo capitolo del romanzo, che dava una spiegazione “morale” al racconto. Kubrick aveva avuto a disposizione soltanto l’edizione americana, che aveva epurato il suddetto capitolo presente nell’edizione originale britannica. In quest’ultima parte, dopo la gioia-martirio-risanamento, l’ormai maggiorenne Alex è scontento esistenzialmente, sebbene attui di nuovo la violenza. Quel malessere è dettato dal fatto che Alex è cresciuto. Tutto quel vorticoso agire era soltanto ribellione giovanile.
Una conclusione, che piaceva a Burgess, che trasformava Arancia meccanica in un Bildungsroman, che termina con la maturazione del protagonista. Nell’eccellente versione di Kubrick, Alex diviene maggiormente una variante irriverente del Candido di Voltaire. Nel suo circolare percorso, Alex si confronta con un mondo popolato da personaggi che non sono tanto differenti da lui. La violenza è praticata anche dalle istituzioni (la polizia, l’ispettore giudiziario minorile Deltoid e i politici) o dagli intellettuali (sebbene la tortura sia inflitta per vendetta).
Non a caso nel pre-finale il Segretario degli interni, opportunista rappresentante del Potere, lo stringe a sé e si fa fotografare con lui. Bill (Tom Cruise) nel finale è psicologicamente smarrito e impaurito, non essendo riuscito tra l’altro a portare a termine il suo desiderio sessuale, mentre Alex, riacquisita la spavalderia, tornerà anche ad appagare i suoi desideri lascivi.