Riprendiamo in esame alcune delle riflessioni di François Truffaut su questo cineasta “morto a ventinove anni” e divenuto oggetto di culto per molti cinefili e registi. “Ho avuto la fortuna di scoprire tutti i film di Jean Vigo in un’unica volta, un sabato pomeriggio del 1946, al Sèvres-Pathé grazie al cine-club La chambre noir animato da André Bazin e altri collaboratori di La Revue du Cinéma. Entrando in sala ignoravo persino il nome di Jean Vigo, ma fui preso immediatamente da un’ammirazione sterminata per quest’opera che tutta insieme non raggiunge nemmeno i duecento minuti di proiezione”.

Un’inaspettata folgorazione (raccontata nel libro I film della mia vita, 1975) che ha influenzato, come spesso accade, le scelte del regista; “la simpatia per Zero in condotta (1933)”, un amore adolescenziale, in parte scaturito dall’identificazione “avendo solo tre o quattro anni in più dei collegiali di Vigo” e dal fascino della sperimentazione, dal voler “vedere che effetto fa” racchiuso nella scoperta di un mestiere che solo le opere prime riescono a restituire. Questa identificazione trova ulteriore forza nel comune passato da “cinéphile”, dimostrazione della passione che ha avvicinato entrambi alla professione del cineasta.

Zero in condotta è un film d’epoca, “tutti i film di bambini sono film d’epoca”, è il potere che ha la rappresentazione dell’infanzia nel cinema e nella letteratura a suggerire a Truffaut questa altisonante definizione, un ritorno al passato indotto da transitori flashback che ci riportano “alle nostre braghette corte, alla scuola, alla lavagna, alle vacanze, al nostro esordio nella vita”.

Con I quattrocento colpi (1959) Truffaut fa il suo esordio nel mondo cinematografico, una storia personale, una rievocazione del suo esordio nella vita (un legame con il passato che Il ragazzo selvaggio, Gli anni in tasca e la figura del bambino sordomuto ne La camera verde ristabiliscono pur apportando le dovute variazioni del caso) prendendo a prestito il corpo e il talento del suo alter ego Jean-Pierre Léaud fino a quando, dovendo trattare un tema a lui caro come lo è quello della realizzazione di un film, deciderà di scendere in campo personalmente, divenendo il regista Ferrand, passando quindi dall’altra parte in Effetto notte. Non è la prima volta che questo accade a partire da Il ragazzo selvaggio, seguito da La camera verde e da alcune brevi apparizioni (indimenticabile la scena rotante del luna park ne I quattrocento colpi), ma sicuramente questa interpretazione presenta un maggiore investimento affettivo carico di richiami autobiografici.

«Quali sono, secondo lei, i dieci migliori film del mondo?», una domanda posta con una certa frequenza viene utilizzata da Truffaut, che considera L’Atalante un elemento imprescindibile della risposta, come pretesto per rivedere l’iniziale enfasi provata a La chambre noir assistendo alla proiezione di Zero in condotta, questa non è scomparsa ma si è solo affievolita, il gusto del cineasta è maturato. Con L’Atalante, ancora una volta un grande tema d’“esordio nella vita”, quello di una giovane coppia; Truffaut vede “riconciliate, due grandi tendenze del cinema, il realismo e l’estetismo (…) L’Atalante contiene nello stesso tempo A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di Godard e Le notti bianche (1957) di Visconti, vale a dire due film incomparabili, che sono certamente l’uno agli antipodi dell’altro, ma che sono anche quanto di meglio si è fatto in ciascuna delle due direzioni”.

Non secondaria è la collaborazione con Jean Dasté (protagonista sia in Zero in condotta che ne L’Atalante), nonostante Truffaut gli assegni dei ruoli di contorno ne Il ragazzo selvaggio, L’uomo che amava le donne e La camera verde, questo può servire a ristabilire un contatto ideale con Vigo attraverso un suo attore feticcio, aggiungerei anche con Jean Renoir, “il più grande cineasta del mondo”.

Truffaut celebra Vigo, un regista ostacolato dalla malattia, costretto a lavorare in uno stato febbricitante, quasi in trance, una condizione paragonabile forse all’“eccitamento che prende uno scrittore come Henry Miller davanti al suo tavolo di lavoro. Alla ventesima pagina una specie di febbre lo prende, lo trascina e questo è formidabile, sublime forse”.