"Ella se define como una mezcla de desierto, casualidad y cafetería": con questa descrizione bizzarra ed evocativa viene introdotta sul palco il personaggio di Zahara de La Mala Educación, frutto della mente e dell’esperienza di Ignacio e centro nevralgico dei desideri mancati di tutti i personaggi, punto focale in cui immaginazione e realtà di incontrano dando vita a scenari complessi e stratificati.
Ma questa compresenza di elementi apparentemente distanti, questa contaminazione tra scenari familiari e atmosfere stranianti potrebbe essere impiegata per descrivere il cinema stesso di Almodóvar, costantemente sospeso tra corpo e simbolo, materia e immagine, spettacolo e intimismo. I film della rassegna Corpi in prestito (Kika, Il fiore del mio segreto, Parla con lei, La Mala Educación e Volver) sono una summa delle sfumature che compongono il cinema di Almodóvar, ma soprattutto sono un percorso attraverso il quale è possibile ricostruire l’evoluzione formale e tematica del regista iberico.
A partire da Kika (1993), che attraverso un registro che gioca con il paradosso mette in scena la brutalità esercitata dalle immagini sui corpi, tipica della società dei mass media e di una certa tv sensazionalistica disposta a distruggere tutto ciò che incontra pur di accappararsi lo scoop del momento. Kika è forse il film più sperimentale ed eccessivo del primo Almodóvar, che attraverso un’operazione di mimesi quasi totale riproduce fedelmente il lato grottesco della realtà, suscitando una reazione viscerale di repulsione: i corpi violati diventano immagini da consumare, contenuti audiovisivi in cui la violenza si ripete ossessivamente, che scavano nel dolore della vittima rendendolo di pubblico dominio. Il tema dei mass media e dell’industria culturale che sfruttano i sentimenti più comuni e profondi delle persone per trarne profitto si ripresenta, seppure con diverse declinazioni, anche nei film successivi.
Come ne Il fiore del mio segreto dove il romanzo rosa diventa per la protagonista, prigioniera di un matrimonio finito e di un amore non ricambiato, uno strumento di evasione, un archivio di desideri e di sogni che non trovano posto nella realtà. O come in La Mala Educación, dove la realizzazione film ispirato a un racconto di fatti reali diventa una minaccia per il protagonista di quelle vicende diventa il motore dell’azione e il fulcro delle tensioni tra i protagonisti. O in Volver, dove la sacralità dei segreti condivisi da una comunità vengono difesi dalle luci di uno studio televisivo: proprio la comunità, prettamente femminile, è un altro dei centri della filmografia di Almodóvar. Una comunità che si fa custode di ricordi e di storie, in cui vige la regola della cura reciproca, dove le donne intessono legami profondi e affermano la propria autonomia dalla sfera e dallo sguardo maschile.
Ma a rendere peculiare il cinema di Almodóvar, così saturo di colori e sovrabbondante nei suoni, è la sua capacità di rendere visibile il dolore, di parlarne senza remore e rendergli giustizia nella sua dimensione corporea e spirituale. Il corpo viene mostrato nel pieno della sua esperienza esistenziale: corpi desideranti, corpi agenti, ma anche corpi liminali e sofferenti, a metà tra la vita e la morte. Ma anche corpi ai margini, che vivono fuori dalla norma; corpi puniti e disciplinati, che portano il segno delle ferite inferte dalle istituzioni religiose, dai media o dagli uomini.
Attraverso un piglio ironico e i toni del mélo, il dolore che tutti i corpi attraversano viene visibilizzato, esplicitato, articolato: i personaggi di Almodóvar soffrono e non hanno timore di dirlo, di esternarlo e di condividerlo con la propria comunità. Un dolore che coesiste con la gioia che esplode all’improvviso senza avvisare, con il desiderio e la necessità di andare avanti nonostante tutto: un dolore che viaggia, che trasforma il tempo e lo rende ciclico, che lega madri e figlie e le unisce in un’unica grande storia.
E il percorso di Almodóvar sembra confluire proprio in quel legame madre-figlia tanto caro al regista, che inizia in Il fiore del mio segreto e raggiunge la sua forma compiuta in Volver, dove il ricucirsi del rapporto tra la Raimunda di Penelope Cruz e la madre, e di conseguenza quello di Raimunda con la figlia Paola rappresenta la chiusura del cerchio che accoglie il dolore e permette alla ferite di risanarsi.