Diversa dalle semplici parole, prima fissate in un amplesso d’ispirazione, poi modellate fino alla nausea durante il processo di scrittura, una voce è immune alla manipolazione. Il tono utilizzato durante una conversazione ne rafforza il contenuto. Dall’altra parte, l’ambiente scelto per l’incontro, unito alla posizione sociale assunta o anelata dai duellanti, molto spesso, favorisce la suggellazione d’un rapporto impari. Dominio, sottomissione, in luogo di mediazione e amichevolezza. Per questa ragione, una scena in particolare, in un diligente lavoro di ricostruzione storica come Anche io, spicca e raggela come nessun’altra.

L’unico momento in grado di spezzare un ritmo intessuto di meeting, terminologie giuridiche, eventuali strategie vincenti e testimonianze da ottenere tempestivamente, è un’incursione nel genere documentario. Anche se piuttosto ristretto, così come definito da Virginia Woolf in Orlando, il terreno solido della verità accertata ritorna nel lento procedere della macchina da presa, posizionata al centro dei corridoi di un hotel.

Qui, non ci sono interpretazioni né sfumature, bensì Harvey Weinstein e Ambra Battilana Gutierrez. Si tratta della registrazione di una conversazione avvenuta tra il produttore e la modella. Contrario a ogni tipo di equivoco, quest’audio, accompagnato da una carrellata silente come i fantasmi della Hollywood complice entro cui Weinstein poté agire indisturbato, simboleggia la reale missione dell’ultimo film di Maria Schrader.

Come adattamento del libro omonimo scritto dalle giornaliste Jodi Kantor e Megan Twohey, incentrato sull’inchiesta pubblicata dal New York Times, che portò alla luce gli abusi perpetrati da Weinstein, la pellicola non presenta guizzi arditi. In assenza di manifesti difetti, il limite di Anche io, pellicola al contempo sofisticata e asciutta nella messinscena, scolastica nella scrittura, risiede nella forte risonanza mediatica del caso in questione.

Accostata ad altre pellicole dedicate al giornalismo, risentirebbe del paragone sotto diversi aspetti. Senza scomodare i recenti Spotlight e The Post, basti ricordare Tutti gli uomini del presidente, che sceglie, nella scena iniziale, un silenzio a metà strada tra Un condannato a morte è fuggito di Bresson e I senza nome di Jean-Pierre Melville, sottolineando ogni singolo gesto illecito.

Tuttavia, al di là della sua andatura, prevedibile e in alcuni frangenti ingiustificatamente roboante, data una colonna sonora appesantita dalla quasi onnipresenza del violoncello, è interessante sotto un altro, decisivo punto di vista. Tralasciando un istante la ferrea composizione dell’indagine, condotta sin dagli inizi metodicamente, Anche io ha il merito di mettere al centro della sua narrazione le donne.

Per fornire un esempio, non conferendo diritto di replica a una figura indifendibile, nella sua meschinità inquadrata di spalle, evocata attraverso pochi, essenziali dettagli. Per proporne un altro, più rilevante, restituendo alle vittime una voce perduta “prima ancora di averne trovata una”, citando la misurata e memorabile apparizione di Jennifer Ehle, qui nelle vesti di Laura Madden. Tornare indietro non si può.

Tuttavia, una volta individuato un male non solo endemico nell’America guidata da Trump, rimane possibile agire al fine di rimuovere ogni fattore in grado di ostacolare il pieno sviluppo della dignità umana. In tal senso, non è casuale l’assenza di aule giudiziarie. Non si mostra un’istituzione deus ex machina a sbrogliare la matassa, bensì la Women’s March on Washington. Non è un caso che a impersonare Ashley Judd sia la vera Ashley Judd.

Sia Schrader che Rebecca Lenkiewicz – sceneggiatrice in passato per Steve McQueen (Small Axe), Sebastián Lelio (Disobedience) e Paweł Pawlikowski (Ida) – sanno quanto, in questo caso, sia ovvio chi rappresenti il bene, chi il male. Quindi, ciò che maggiormente preme è raccontare cosa significhi essere una donna. Innumerevoli gli esempi; a partire dal prologo in Irlanda, passando alle minacce all’indirizzo di Twohey (Carey Mulligan), fino alla discussione delle aspettative della società intorno a ciò che chiamiamo maternità.

A conti fatti, la forza del movimento #metoo emerge già nella stima reciproca e nell’amicizia tra Kantor (Zoe Kazan) e Twohey. Due mondi all’apparenza distanti. L’incasellamento dei ruoli sembra semplice. L’una concentrata sul monitor, un sorriso schivo alla collega, l’altra intraprendente e disposta a sacrificarsi nel nome della verità – Mulligan riprende la sua Cassandra Thomas, vista in Una donna promettente.

Completamente opposte, o quasi. Eppure, vicine, al solo confidarsi e incoraggiarsi a vicenda. In un termine, sorellanza. Un duetto ben assortito, impreziosito dalla sottile ironia con la quale le due reporter, vestite uguali in un determinato episodio, si inoltrano nei meandri di un universo tanto agognato, ma a loro sconosciuto.

Anche io non entrerà, magari, nella storia del cinema. Certo, nei prossimi mesi, non vincerà premi – sul punto, è attesa l’uscita di Women Talking di Sarah Polley. Non mancherà chi lo riterrà un prodotto appositamente realizzato per permettere a Hollywood di ripulirsi la coscienza. Ciononostante, rappresenta un tassello nel puzzle, calibrato sobriamente, soprattutto, accessibile a chiunque si ritenga non toccato/a dalla serietà del tema dibattuto.