Un’avvocata illustra alla sua cliente minorenne cosa significhi essere coinvolte in un processo per violenza sessuale: la vittima rischia di venire descritta come una “sgualdrina”, perché la libertà sessuale femminile (“Quanti ragazzi hai avuto? Con quanti hai fatto sesso?”) è ancora letta e interpretata attraverso l’etica e lo sguardo maschile.

Questo è l’incipit di Ancora un’estate, quindicesimo film di Catherine Breillat dove la regista, sceneggiatrice, attrice e scrittrice porta avanti il suo discorso sul femminile e sul posizionamento della donna nella società (in particolare quella borghese, francese, contemporanea). La stimata avvocatessa è Anne (Léa Drucker), una donna di mezza età che si ritrova ad ospitare in casa il diciassettenne Théo, figlio del primo matrimonio del marito.

Il giovane ribelle (atteggiamento scostante, sguardo strafottente e capelli folti che quasi coprono gli occhi) fa la sua comparsa a torso nudo mentre si asciuga i capelli dopo una doccia, mostrandosi subito alla donna nel fisico asciutto della sua giovinezza. “Sai che sono una gerontofila”, afferma Anne nell’intimità con il marito per rassicurare il pingue consorte della sempre viva attrazione per lui. Ma questo accade prima che divampi (inevitabilmente) la passione scandalosa per il figliastro.

Quello di Ancora un’estate è il racconto di una (de)costruzione del desiderio femminile, una scomposizione, un’analisi: il confronto con un’alterità che giunge improvvisa a scardinare le fondamenta della vita, il dubbio sulla liceità di un comportamento antitetico alle regole morali e civili della società, l’abbandono alla naturalità del sesso, la valutazione del peso di un’azione in rapporto alla messa in crisi dell’onore e della rispettabilità borghese.

Breillat conduce la storia con mano decisa, ingabbiando (isolando?) la sua protagonista in campi studiatissimi dal punto di vista della composizione (le direttrici che uniscono i personaggi e tagliano le inquadrature con linee geometriche, la dialettica tra sfondo e primo piano) a significare l’ingabbiamento in una sovrastruttura di regole e convenzioni da cui la donna vuole (ma ha paura di) liberarsi.

E in questo atto di ribellione, in questo sconfinare dell’istinto e della pulsione, Breillat anziché allargare il respiro del racconto e delle immagini, stringe ancor di più e lascia che siano i lunghi primi piani di Anne a comunicare l’estasi del piacere. Del resto, Ancora un’estate non è una storia d’amore, nemmeno d’amour fou: è un film su una donna che combatte (in primis contro sé stessa) per affermare il proprio posto, il proprio diritto alla libertà, il proprio corpo e il proprio desiderio.

Un desiderio che passa dall’essere “domato” (gli immediati ripensamenti, le menzogne, i risvolti legali) all’essere “dominante” e il cui parzialmente fallito addomesticamento (non è un caso che le figlie della coppia pratichino equitazione) passa anche per una fotografia prevalentemente fredda: una fotografia che – rispecchiando l’intento analitico dello sguardo registico (“un’analisi del desiderio”, dicevamo) – contribuisce tuttavia a limitare il coinvolgimento spettatoriale, allo stesso modo di una sceneggiatura che non sfrutta tutte le potenzialità del racconto, peccando talvolta d’incongruenza (specialmente per quanto riguarda i rapporti tra Anne e il marito) e fidandosi poco, in più di un’occasione, sia del potere delle immagini sia di quello delle parole.

Ancora un’estate è sì un film impegnato, perché parla della nostra morale e dei compromessi che si devono mettere in atto per decidere il confine tra il lecito e l’illecito, tra il concesso ed il proibito. È però un’opera figlia di un femminismo che – forte della lezione del #metoo e delle recenti vicende giudiziarie aperte sul problema – sembra rivendicare sé stesso al di là di tutto, anche a prezzo di una coerenza interna: Anne è un personaggio sfaccettato e l’equilibrio tra lei è il marito (nonché tra la donna e sé stessa) è continuamente rimodulato.

Ancora un’estate resta in fondo un film scomodo ma che non fa scandalo (siamo fuori tempo massimo per un film tabù, nonostante oltre alla differenza d’età vi sia il semi-incesto), un film che volendo trattare del nobile tema della liberazione di una donna che afferra per un attimo una perduta giovinezza, finisce per rimanere imbrigliato nelle stesse gabbie della sua protagonista.