La macchina da presa segue un bambino inoltrarsi da solo in una foresta. Prima lo vediamo di spalle poi, con uno stacco, da davanti. Il bambino si blocca, qualcosa dal fuori campo lo turba, scappa spaventato. In una sequenza successiva il bambino torna nella foresta con il padre. Stavolta la macchina da presa rimane alle loro spalle e ci mostra un possibile contro campo: uno sconosciuto vaga per la foresta, un migrante che vuole valicare i confini, un animale selvatico da scacciare. Il padre sembra certo, non può esistere altro contro campo. Ma una verità più terribile riguardo al fuori campo iniziale rivelerà tutta l'impotenza di una comunità che cerca di totalizzare il campo per difendere i propri confini.

Con il cinema di Cristian Mungiu la scelta di campo torna a essere una questione morale, come voleva Serge Daney. Anche il precedente film del regista rumeno, Un padre, una figlia (2016) si apriva con una minaccia proveniente da un fuori campo, una pietra scagliata su una finestra. In Animali selvatici, nell'escalation di repulsione verso alcuni migranti venuti a vivere in una piccola comunità, una bomba incendiaria viene scagliata dentro la loro nuova abitazione. Il campo è una questione spaziale e una comunità insorge per difendere i confini del proprio campo profanando una casa. Ma piuttosto che condannare, Mungiu rivela i volti di questa comunità, dà loro voce, li mette di fronte ai loro sconsiderati gesti.

La forma che Mungiu decide di adottare per raccontare le sue vicende è il thriller, che si fonda sul principio di una conoscenza solo auspicabilmente piena ma in fondo precaria, carente. La disseminazione di indizi tipica del thriller è prima di tutto una disseminazione di punti di vista. Difatti il film è alla perenne ricerca di un protagonista, di un punto di vista inascoltato. In questo modo lo spettatore può vagliare le divergenti prospettive e i conflitti di una piccola comunità chiusa della Transilvania senza dover assumere per forza una posizione determinata.

Qualcosa sembra sempre nascosto e sul punto di dover esplodere. La presa di parola di una comunità viene costruita attraverso un crescendo di dettagli, parole e corpi: ciò che inizialmente era anonimo chiacchiericcio diventa un gruppo Facebook, poi una discussione in una chiesa, infine una fluviale protesta in municipio di 15 minuti ripresa senza stacchi in piano sequenza.

Ancora più impressionante è però il taglio deciso che recide la sequenza nel municipio. Un momento di sospensione, simile alla prima sequenza nell'isola in Triangle of Sadness, che svelando una tragedia più profonda rimasta invisibile evidenzia la vanità delle pulsioni reazionarie. Il campo sembra sempre sul punto di totalizzarsi finché un intervento registico non indica la via a qualcosa d'impensato.

Centrale nel contenuto e nella forma di Animali selvatici è la questione della democrazia. Se in democrazia una decisione è presa nella consapevolezza di un conflitto, di una divergenza di vedute entro una stessa comunità, lo stile confrontazionale del film cerca di rendere conto dei diversi punti di vista, dei conflitti esistenti, rinsaldando la fiducia in un fuori campo che possa sempre mettere in discussione la scelta di campo, la decisione di una comunità.