In occasione della giornata dedicata a Blow-up, dedichiamo alcune riflessioni al film, partendo da punti di osservazione laterali e imprevisti.

“Grazie all’arte, invece di vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi, e per quanti sono gli artisti originali, tanti sono i mondi a nostra disposizione”. Così scriveva Proust, e così testimonia il pittore e scultore Alberto Giacometti traducendo il doloroso senso di solitudine e incomunicabilità dell’uomo moderno nelle ineffabili fisionomie delle sue tele, che se potessero, prenderebbero vita nella fluida sensualità di un brano dei Pink Floyd, magari riprese attraverso la straniante prospettiva di Antonioni. I suoi personaggi, in tutta loro complessa e inquietante verità, sono gli stessi che disegna Giacometti, inseriti nella geometria spaziale di una partita a scacchi di cui non è dato conoscere il meccanismo.

Tuttavia, stando alle parole del regista: “Mentre per il pittore si tratta di scoprire una realtà statica, per il regista il problema è cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come nuova percezione. Un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa. “

In Blow-up (1966) questo continuo divenire viene catturato, analizzato e decifrato dal massimo dell’obiettività dato dalla riproduzione fotografica del reale e Thomas, vagabondo in una Swinging London brulicante di anime e pensieri nuovi, vive la sua relazione con il mondo nell’incessante bisogno di apertura verso nuove prospettive, verso un oltre la cui consapevolezza – seppure inconscia – gli impedisce di definire e cristallizzare la sua esistenza. E in tal senso si può inquadrare anche l’erotismo che egli risolve nella relazione con due donne diverse: Versushka, la modella con cui Thomas consumerebbe un ideale rapporto sessuale durante un servizio fotografico e Jane, accidentalmente incontrata in una delle sue fotografie.

Discinta in modo da sembrare paradossalmente una figura angelica, senza un’apparente peso terreno, Verushka non può non ricordare la Brigitte Bardot che Godard ha voluto rendere ancora più eterea e statuaria nel film Il Disprezzo (1963) dove interpreta Camille, che si rivelerà poi essere una specie di Penelope del ventesimo secolo. Entrambe sono come due blocchi di ghiaccio, intorno alle quali aleggia un alone di mistero che rende i loro vissuti interiori completamente inarrivabili: bisogna che Verushka e Camille vengano, infatti, considerate nella loro interezza e totalità, senza alcuna prospettiva che non sia la loro, senza alcuna psicologia. Secondo il critico Alain Bergala, sembra quasi che Godard giochi con i concetti di blocco e unicità, di unità a se stanti che si avvicinano moltissimo al motivo dell’incomunicabilità proprio della riflessione di Antonioni.

 D’altro canto vediamo JaneVanessa Redgrave, figura altrettanto impenetrabile e fugace, la cui indole attrarrà Thomas verso una progressiva e graduale ricerca della verità sottesa dall’oggettività fotografica. A differenza di Verushka, intorno a Jane ruota una precisa e determinata psicologia che rende il suo mistero, a poco a poco, meno inestricabile di quello che in apparenza sembra; ella stimola la naturale curiosità del protagonista la cui esperienza non è sentimentale o amorosa, ma piuttosto concerne la sua relazione col mondo e le risonanze che tale rapporto provoca all’interno del suo animo. Jane è, quindi, l’emblema della casualità e accidentalità, di quelle diramazioni che sconvolgono l’ordine preesistente e che spingono verso quell’oltre per Thomas trascinante e irresistibile.