Il tempo e la follia umana si annullano in quella che, a distanza di quasi quarant’anni, è ancora una delle messe in scena più potenti di tutto il cinema post-moderno. Shining torna al cinema, stavolta con montaggio diverso (una manciata di sequenza in più che Kubrick stesso decise di recidere per il mercato europeo), per travolgere ancora le platee con l’ormai famosa ”onda di terrore”. Dicitura che campeggiava sui manifesti del 1980 e che ha contribuito a consacrare il film come uno dei pilastri fondamentali del cinema horror.
Tuttavia, come ogni altra kubrickiana creazione, Shining sfugge a tutti i possibili incasellamenti. Così, nonostante alcuni stilemi tipici del genere: il sangue e in particolar la presenza dell’elemento soprannaturale, il film è distante da ogni altro film horror prodotto nello stesso periodo (basti pensare a Halloween del 1978). Questo perché l’orrore di non è mostrato canonicamente sullo schermo. Quello voluto da Kubrick per Shining è un orrore concettuale, perturbante poiché capace di richiamare sentimenti ancestrali quanto spaventosi. Come il massacro di un’intera famiglia per mano di un padre.
Prendendo le mosse dal romanzo di Stephen King, mai soddisfatto dell’adattamento del 1980, tanto da collaborare nel 1997 all’adattamento per la tv di Mick Garris, il film di Kubrick ne scarnifica la trama lasciando da parte dettagli riguardanti il background dei personaggi e siepi viventi, per tratteggiare dei tipi umani che si perdono in uno spazio fuori dal tempo (basti pensare ai corridoi dell’Overlook Hotel e all’idea stessa del labirinto). Uno spazio in cui ripercorrere il tempo a ritroso è sinonimo di annullamento, perdita.
Un senso di soffocamento che amplificato grazie a un utilizzo del sonoro che si snoda tra le suggestioni elettroniche di Wendy Carlos, composizioni che portano la firma di Ligeti, Bartók e Penderecki, la cui musica era stata precedentemente utilizzata da anche da William Friedkin ne L’esorcista (1973), e ballate degli anni ’30. Un contesto in cui soltanto la voce distorta del piccolo Danny Torrance sembra essere un elemento proprio dell’universo narrativo.
In questo senso è interessante sottolineare la duplice valenza, tecnica e metaforica, dei quattro pezzi musicali degli anni ‘30 scelti da Kubrick per dare voce alla lunga sequenza nella Gold Room. In tutti i casi si tratta di pezzi preesistenti utilizzati nelle loro registrazioni originali. Dettaglio che contribuisce a creare un certo effetto straniamento: la musica è diegetica, quindi proveniente dall’orchestra che vediamo, oppure deriva da una fonte a noi ignota ed esterna alla narrazione? Un indizio può essere dato dal fatto che Kubrick girò l’intera scena nel più assoluto silenzio…
I pezzi corrispondono a quattro momenti fondamentali nella sequenza: l’avvicinamento di Jack alla Gold Room, luogo in cui presumibilmente si sta tenendo una festa (Masquerade); l’arrivo di Jack nella Gold Room (Midnight, the Stars and You); il momento in cui Jack riconosce Delbert Grady (It’s All Forgotten Now); l’istante in cui Grady dice a Jack di essere lì da sempre e che è lui il vero custode (Home – When Shadows Fall).
Nel caso di Jack ripercorrere il tempo è sinonimo di annullamento. Un venire meno dell’io e dello spazio-tempo che, in particolare le ultime due canzoni della sequenza, descrivono in modo particolarmente calzante la perdita del protagonista anticipandone la climax finale, fino all’inevitabile ritorno nel non-spazio della Gold Room. Non a caso, i versi di It’s All Forgotten Now recitano: “It's all forgotten now/The trouble and the pain/ Forgotten, every word I said/Forgotten, every tear you shed.” Interessante che il romanzo di Stephen King fu pubblicato in Italia per la prima volta proprio con il titolo Una splendida festa di morte nel 1978.