Cinefilia Ritrovata ha chiesto ai suoi collaboratori, per lo più giovani, di dire la loro sul capolavoro di Kubrick, purché rivisto oggi, quarant’anni dopo, in sala, nel restauro digitale. Bisognava insomma “re-incontrare” il film, nella sua versione originale con sottotitoli italiani, anche per riassaporarne l’immersione totale. Ecco (in due tranche) il ventaglio di recensioni e analisi che ne è scaturito. Parte I, segue:

 

Redmond Barry, il protagonista di Barry Lyndon di Stanley Kubrick, è un giovane borghese impoverito che durante la Guerra dei sette anni si renderà però conto che dietro le maschere suadenti della nobiltà si cela un mondo sleale, corrotto e meschino. Nella follia di questa rincorsa, Barry conserva tuttavia, anche se a caro prezzo, la sua vera identità. Ed è proprio su questa identità e sul suo rapporto con la società settecentesca che lavora Kubrick. Come per gran parte della sua produzione, anche per Barry Lyndon (1975) Kubrick si fa ispirare da un romanzo. Sceglie “The Luck of Barry Lindon” di William Thackeray. E sceglie questo romanzo minore e non “La fiera della vanità”, più conosciuto e forse anche più riuscito, per aver modo di raccontare una vicenda a sfondo storico focalizzando su pochi personaggi, per non disperderne la forza narrativa. Obiettivo raggiunto: Barry Lyndon non è il film lento di costume che molti temono e a distanza di quarant’anni mantiene intatta la sua potenza, fatta di fascino visivo, trama avvincente, ironia, malinconia e profondità.

Barry è l’antieroe che permette a Kubrick di far sua – e di conseguenza nostra – l’ossessione di Thackeray: una società “con un rispetto esagerato per la ricchezza o la posizione sociale”. Questo romanzo di formazione dal tono ironico e picaresco non poteva non affascinare Kubrick, che però lo modifica, dilatando e restringendo il ruolo di alcuni personaggi e aggiungendo episodi. “Vi starete domandando se la realizzazione filmica non sia altro che la continuazione della scrittura – dichiara il regista – Ritengo che realizzare un film sia esattamente questo […] La messa in scena deve trovare un proprio stile e potrà farlo soltanto se il contenuto è stato colto fino in fondo […] Forse lo farà altrettanto bene, o forse per certi aspetti, lo farà meglio di quanto lo faccia il romanzo stesso”. Kubrick insomma rimane fedele alla narrazione della parola e allo stesso tempo, facendo sua l’opera e cogliendone l’urgenza narrativa, si concede il lusso di esserle infedele, contaminandola con l’ambiguità dell’immagine e gli innumerevoli significati da essa generati. Ne è esempio lampante la scena finale (assente nel romanzo) del duello tra Barry e il figlioccio Bullington, che risulta una delle più affascinanti ed eloquenti del film e che fa parte proprio di quel processo di riscrittura di cui parla Kubrick. Senza quello sparo a terra di Barry, quel voler rimarcare la propria lealtà e la propria differenza intuendone perfettamente le conseguenze, il protagonista e tutta la narrazione filmica non avrebbero avuto la stessa potenza.

All’efficacia narrativa si affianca poi una splendida trasposizione estetica della vita nella seconda metà del Settecento: il film nel 1976 vinse l’Oscar alla migliore scenografia e ai migliori costumi (realizzati dall’italiana Milena Canonero). Le scene sono fedelissime riproposizioni di dipinti d’epoca (Gainsborough, Reynolds, Hogarth), tavole a cui Kubrick dona la vita attraverso meravigliosi zoom all’indietro: la macchina da presa parte da un dettaglio per allargarsi al contesto, come a collegare l’individuo alla società. Perfetti gli interpreti. Un giovanissimo ma già famoso e turbolento Ryan O’Neal conferisce a Barry una brama di vivere e un’ironia che ben bilanciano il lato malinconico e romantico del personaggio. Mentre la sua bellezza evidente e spavalda fa da contrasto a quella dolente e altera di Marisa Berenson. Infine la bella colonna sonora con musiche originali riadattate: la Sarabanda della Suite IV in Re minore di Handel se non fosse stata modificata da Leonard Rosenman con l’aggiunta dei bassi non ci avrebbe lasciato quel ricordo indelebile di drammatica solennità. Un tema lento e grave che ricorda una marcia funebre e che accompagna tante scene. D’altra parte l’epitaffio che Kubrick sceglie per chiudere il film strizza l’occhio, beffardo, alla morte e alla vanità umana: “Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri ora sono tutti uguali”.

(Lorenza Govoni)

 

 

A quarant’anni dalla prima uscita in sala, Barry Lyndon torna nei cinema. Il film di Kubrick, che nel 1975 venne accolto freddamente ora è diventato una delle opere riconosciute a livello mondiale grazie soprattutto a una importante rivalutazione critica. Stanley Kubrick firma la sceneggiatura di questo film, tratta dal romanzo Le memorie di Barry Lyndon (1844) di William Makepeace Thackeray, narratore in chiave satirica della società inglese. Il protagonista, Redmond Barry, poi Lyndon, è il classico personaggio da romanzo picaresco. L’animo romantico del giovane ragazzo lascia presto spazio a un carattere inetto e svogliato, che diventa poi ambizioso e crudele, irritante e senza scrupoli. Il camaleontico Barry, costretto a lasciare l’Irlanda, si improvvisa militare dell’esercito inglese, poi passa al fronte tedesco, diventa spia della polizia, giocatore d’azzardo, completando la sua ascesa unendosi in matrimonio con la vedova Lyndon, grazie alla quale può aspirare finalmente all’ambito titolo nobiliare. Tuttavia Barry era una di quelle persone abbastanza furbe da impadronirsi di una fortuna ma incapaci di conservarla. Infatti, le qualità e le energie che portano un uomo a conquistare una fortuna sono spesso le stesse che lo portano poi a perderla. Il beffardo narratore onnisciente racconta l’avventura di Barry puntando il dito sui suoi errori, ma senza risparmiare neppure i suoi avversari. La scelta del regista di riscrivere l’opera di Thackeray secondo un diverso punto di vista (nella versione originale era lo stesso protagonista a raccontare la storia) offre allo spettatore un impietoso giudizio critico sui personaggi. Allo stesso tempo questa voce allontana dalla vicenda anticipando ciò che accadrà, universalizzando i comportamenti e permettendo lo spostamento dell’attenzione dalla suspense narrativa verso l’effettiva messa in scena.

Kubrick, com’è noto, ricerca nelle sue opere una costante precisione stilistica. Questo lavoro regala al pubblico un realismo anomalo per un film in costume, grazie a un’attenta ricerca per il particolare e un piacevole amore per il dettaglio. È evidente la sinergia tra il regista e i vari reparti tecnici, dal costume, alla musica, alla fotografia, alla scenografia, tutti insigniti del premio Oscar. In quest’opera, la fotografia è l’elemento che colpisce maggiormente. L’uso della luce naturale, possibile grazie all’utilizzo dei moderni obiettivi Zeiss, permette al regista di accentuare ancora di più il carattere realistico dell’opera. La narrazione spesso viene interrotta da alcune composizioni statiche dei protagonisti, dei veri e propri tableaux vivants. La costruzione di questi allestimenti e lo zoom che si allontana, richiamo alle tecniche pittoriche del Settecento, sembrano voler fermare il tempo, imprimendo nella memoria la tragicità della storia e accentuandone i risvolti emozionali. Alla delicata ricerca tecnica si oppone la storia disordinata di Barry Lyndon, in un susseguirsi di ascese e cadute. Un’opera che si svolge nell’attesa dell’annunciato fallimento di Barry, in un beffardo finale circolare che ristabilisce gli equilibri.

(Chiara Maraji Biasi)

 

 

Seguendo l’ascesa sociale di Redmond Barry, Kubrick vuole narrare la storia di un personaggio che si rivela essere “molto reale, né un eroe convenzionale né un malvagio convenzionale”. Lyndon infatti, determinato a divenire parte integrante dell’alta classe nobiliare inglese, rimane inesorabilmente vittima senza riscatto di eventi che non gli lasciano scampo, quasi come se il film obbedisse segretamente all’ideale dell’ostrica verghiano, che nega al debole la possibilità di abbandonare il proprio status di miseria, fuori dal quale lo attende un mondo ancora più ostile e pronto a divorarlo. L’inevitabile caduta di Barry lo porta a morire solo, senza eredi e in povertà. Visibile oggi al cinema, a quarant’anni dalla sua realizzazione, Barry Lyndon si impone tornando a regalare un’esperienza visiva senza precedenti. Infatti ciò che rende questo film unico nel suo genere sono le tecniche e lo studio sull’immagine con cui Kubrick l’ha realizzato.

La costruzione narrativa segue una struttura cronologica scandita da tre didascalie che, quasi a richiamare il cinema muto, ci presentano le vicende. Le immagini offerte allo spettatore sono il risultato di uno studio attento ed accurato che Kubrick realizza insieme a John Alcott (direttore della fotografia), che mira a mettere in scena tableau vivant, riproduzioni di famosi dipinti dei maestri del ‘700: ora ci troviamo dentro un salotto di Gainsborough, ora siamo immersi in un giardino di Watteau, ora siamo in una scena di genere di Hogarth. A sottolineare questo aspetto e la stretta compenetrazione fra arte e cinema ci pensa anche la recitazione lenta e “plastica” quasi a non voler scomporre l’armonia e la costruzione della scena, pochi movimenti, quelli essenziali che non distruggono l’unità del dipinto. Altro elemento assolutamente innovativo è l’utilizzo della luce naturale che regala un effetto estetico mai visto prima nel cinema -si pensi alle scene notturne di gioco in cui gli interni sono illuminati solo dalla luce delle candele. Effetto reso possibile dall’utilizzo di particolari lenti applicate sulla macchina da presa. Kubrick, inoltre, coinvolge lo spettatore, nelle scene, attraverso dei piani sequenza che, inquadrando inizialmente un particolare, si allontanano da esso con zoom all’indietro mostrando progressivamente il contesto in cui ha luogo l’azione. Tecnica cara al regista che ritroviamo anche in altri suoi film come Arancia Meccanica. I dialoghi sono un altro punto interessante perché anch’essi sono ridotti all’essenzialità, addirittura alcuni personaggi, tra i quali Lady Lyndon e lo stesso Barry, durante il corso della storia perdono progressivamente l’uso della parola fino a chiudersi in un totale mutismo. Il critico americano Robert Kolker osserva a riguardo che “nei film di Kubrick, impariamo di più su un personaggio per il suo modo di abitare lo spazio che per ciò che dice”. E ancora i costumi, molti dei quali originali d’epoca, e le musiche, arrangiamenti di brani classici e tradizionali, sono tutti elementi che concorrono a fare di Barry Lyndon un capolavoro dal tratto documentaristico, in cui scorrono sullo schermo ritratti e paesaggi di un mondo “altro” che noi siamo chiamati ad abitare per 184 minuti.

(Valentina Ceccarani)