Storia delle disavventure di un gruppo di jazzisti e di come una femme fatale porti il pianista Jigger Pine (Richard Whorf) a una crisi musicale e d'identità tra le notti fumose di un locale gestito da un criminale, Blues in the Night (1941) di Anatole Litvak è il campo audiovisivo di una discussione identitaria: come la musica blues e il movimento jazz si fanno portavoce di una necessità espressiva, di un bisogno profondo dell’individuo di sentirsi libero e rappresentato. Ad ogni costo.

Il film fu inizialmente affidato alla penna di John Wexley (che aveva scritto il gangster movie Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz, 1938; Confessions of a Nazi Spy The Amazing Dr. Clitterhouse, entrambi del 1939 e diretti da Litvak) e il titolo di lavorazione provvisorio era Hot Nocturne. La sceneggiatura fu tuttavia sottratta a Wexley per essere affidata a Robert Rossen, sceneggiatore antifascista e progressista dichiarato.

Rossen trova nel cinema di Litvak il luogo perfetto per esprimersi, adattando le sue idee al contesto musicale del sud degli Stati Uniti. Pur, lo sottolineiamo, nei limiti della rappresentazione concessa da Hollywood – ovvero da un cinema di protagonisti bianchi – Blues in the Night racconta il senso di appartenenza alla comunità jazz, i sentimenti, le invidie e le forti passioni che portano i musicisti ai limiti della loro volontà.

Il senso di comunità e di famiglia di questo gruppo di jazzisti squattrinati e affamati, che condividono lunghi viaggi in scomodi vagoni merci, suonano quando non dormono e sono più gelosi dei loro strumenti che di qualsiasi altro loro avere, è reso dalla scrittura di Rossen attraverso gesti-rituali che adattano i valori del jazz al linguaggio cinematografico (come l’accendere una sigaretta a un altro musicista per esplicitare la propria stima e ammirazione). La musica si fa nel film di Litvak una questione seria, personale, privata. E chi osa profanarla e travisarla rischia di beccarsi un proiettile (forse è proprio così che il gangster movie ruba dal jazz, e non viceversa).

Litvak stesso ha sempre avuto un passione esplicita per la musica: basti pensare che nel precedente La città del peccato (1940) questa si fa l’estrema protagonista di un trattato positivo-edificante dell’arte e dell’espressione artistica (la Sinfonia Americana che diventa la colonna sonora dei folli sognatori di New York). Rossen aveva lavorato con Litvak nemmeno un anno prima per il noir Fuori dalla nebbia (1941), e così la collaborazione Rossen-Litvak si delinea come la condanna del capitalismo più violento (quello armato, della criminalità organizzata) e la glorificazione dell’arte come salvezza e integrazione democratica. Un’arte di tutti e per tutti.

La prima volta che sentiamo il tema di Blues in the Night nel film è in una delle scene più importanti, quando i jazzisti del locale, dopo aver preso a cazzotti un cliente che aveva osato fare al pianista una richiesta poco dignitosa (“Suonala, scimmia! I’m forever blowing bubbles!”), finiscono in prigione e si mettono a discutere su che tipo di musica vogliano suonare.

“It’s gotta be our kind of music, our kind of band. The songs we’ve hear around this country. Blues, the kind that come out of people. Real people, their hopes and their dreams, what they’ve got and what they want. The whole USA in one chorus. That ain’t guys just blowing and pounding and scraping. That’s five guys, no more, who feel, play, live, even think the same way. That ain’t a band, it’s a unit. It’s one guy multiplied five times. It’s a unit that even breathes on the same beat. It’s like a hand in a glove, five fingers, each that fits slick and quick”.

È in quel momento che, in una cella dall’altra parte del corridoio, un carcerato afroamericano intona il brano. I musicisti hanno una vera e propria rivelazione mistica: “È il vero blues di New Orleans!”. Ne sono completamente rapiti. Da lì scorrono immagini, in un montaggio frenetico realizzato da Don Siegel (che a sua volta diventerà regista), del lavoro degli afroamericani nei campi di cotone, e così la musica assume senza mezzi termini il suo significato politico. È la musica del popolo. E, nel film di Litvak, assume l’ulteriore significato di musica “vera”, reale in quanto passionale, fatta da individui che la sentono come una necessità espressiva e comunicativa (e, in questo senso, i protagonisti bianchi del film se ne appropriano culturalmente – ma questo è un altro discorso). La musica, quando non rappresenta chi la suona, può diventare una condanna mortifera. Litvak ce lo dimostra con visioni distorte, quasi orrorifiche, nei momenti più folli di Jigger.

Per il film fu richiesto al compositore Harold Arlen e al paroliere Johnny Mercer di scrivere un brano “da cantare nella cella di una prigione”, e ne venne fuori proprio Blues in the Night. Eseguita dalla Jimmy Lunceford Orchestra (che appare in un cameo) e cantata da William Gillespie, la canzone divenne un successo ancor prima dell’uscita del film, e così Hot Nocturne assunse, per ragioni distributive e di marketing, il nome della canzone (che fu anche candidata come migliore canzone agli Oscar del 1942).

Blues in the Night è l’ultimo film di Litvak con la Warner, casa di produzione da cui anche l’attore antifascista John Garfield si discosterà volontariamente – strappando il suo contratto – per fondare proprio insieme a Robert Rossen la Enterprise Productions, casa di produzione indipendente nata dalla necessità di ottenere quella libertà creativa in suolo americano che, all’epoca del maccartismo, non gli era in altro modo possibile ottenere senza scendere a compromessi. Il produttore della Enterprise sarà Bob Roberts, e il primo film che farà con la Enterprise sarà quell’Anima e corpo (1947) diretto da Rossen stesso e con Garfiled, che strizza l’occhio proprio al cinema di Litvak e che è in un certo senso la versione più materica di La città del peccato. Fu proprio a causa dei valori e dell’impegno di Garfield e di Rossen che la Enterprise fu subito inquadrata dalla HUAC come potenzialmente pericolosa e anti-americana e, per questo motivo, messa a tacere definitivamente.

Dopo l’esperienza Enterprise, Bob Roberts produrrà in Inghilterra uno dei più grandi film sul jazz di sempre, All Night Long (1962) di Basil Dearden, anch’esso un noir ma dal respiro decisamente più hitchcockiano e nichilista, dove a suonare ci sono Dave Brubeck, Charles Mingus, John Dankworth e Tubby Hayes, e la compresenza tra musicisti bianchi e afroamericani supera il senso democratico per diventare terreno di invidie professionali e derive megalomani dei singoli (il batterista interpretato da Patrick McGoohan è l’Otello di Shakespare in chiave jazz).

Ironia della sorte vuole che proprio un giovane attore che nel cinema di Litvak debuttò (presente qui e in La città del peccato) e che diventerà un grandissimo regista, anni dopo denuncerà i suoi colleghi comunisti all’HUAC divenendo “il traditore” di Hollywood. Il suo nome era Elia Kazan. In Blues in the Night i suoi sogni musicali-progressisti respirano ancora attraverso le note del clarinetto. Poi il tempo scriverà per lui una sorte diversa. Ma questa è un’altra storia.