Il cinema di Lee Chang-dong nasce dall’assenza e dalla separazione. Da sempre si costruisce attorno a soggetti esclusi dalla società, separati dai nuclei familiari, soli. In Burning è Jong-su la vittima iniziale, aspirante scrittore, disoccupato, solo e con il padre sotto processo. A lui si aggiungono Hae-mi, una vecchia amica d’infanzia, e Ben, un giovane ricco che si unisce misteriosamente alla loro coppia, dando vita ad un triangolo amoroso destinato a mutare, non senza una buona dose di ambiguità, in un triangolo esistenziale fatto di paura, rabbia e mistero.

Tra gli autori più influenti di quella che fu la New Wave sudcoreana, Lee Chang-dong (uomo politico oltre che regista) rimane ancora oggi un autore devoto a un impegno sociale, fatto di cronaca contemporanea ma anche di lotta di classe. Il racconto della Corea del Sud è, infatti, ben contestualizzato, attuale e nitido; ambientato inoltre ai confini con la Corea del Nord (nazione invisibile della quale si può sentire solo una distante propaganda). Una realtà ferita dalle disuguaglianze sociali sempre più evidenti, messe in scena dai tre protagonisti: i tre centri nevralgici del film. Tre classi sociali diverse, collocate in tre luoghi fisici ben differenti. Da una parte la casa dismessa ai margini della città, in una campagna quasi disabitata dove vive il giovane laureato e disoccupato Jon-su. Dall’altra lo stretto appartamento dalle piccole finestre, dentro il quale il sole entra in brevi momenti fortunati, luogo di Hae-mi, giovane ragazza emarginata e totalmente incompresa nella sua crisi esistenziale - specchio di una nazione ancora ostile e incapace di accettare attivamente la donna al suo interno. Infine il lussuoso appartamento di Ben, “giovane Gatsby” ricco e carismatico ma apatico e misterioso, metafora di una classe borghese incomprensibile, estranea e straniante per le classi meno agiate.

La nitidezza della rappresentazione sociale è ben evidente nel realismo - sia contenutistico che estetico - che sempre ha contraddistinto il regista. Burning però, a distanza di 8 anni dal precedente Poetry, sembra applicare questo approccio lateralmente, sfruttando i toni realistici sotto un potenziale di verosimiglianza (più che di oggettività) attorno a cui costruire un racconto fatto di ambiguità, una ricerca di verità invisibili: di telefonate senza mittente, di gatti che sembrano non esistere, di arance invisibili, di serre che bruciano senza lasciar cenere e della scomparsa di Hae-mi senza apparenti motivazioni. La mancanza di prove alimenta questa lenta ricerca di una verità irraggiungibile. Un’immagine che non c’è perché censurata o perché non vera. Una lenta combustione di un fuoco nascosto o inesistente.

Questa ricerca è pedinamento, attuato dal protagonista ma allo stesso tempo percepito. Un sentirsi seguito da qualcuno che potrebbe essere il regista, così come lo spettatore stesso. Perché il pedinamento è anche stile di regia, già affermato in precedenti film come Oasis o Secret Sunshine, accentuato qui dalla passività del protagonista che osserva gli avvenimenti, incapace di intervenire proprio come lo spettatore che osserva, ipotizza e si confonde. Il lento bruciare di quel fuoco inesistente lo spinge all’emancipazione dallo sguardo, alla autonomia attraverso l’azione concreta. Quell’incendio, che è lotta di classe, alla fine forse esiste, ma non come si credeva, come si cercava, come si sperava.