“Amo il cinema. Non importa che genere di film. Ma tutti i generi di film devono ancora essere creati. Io credo che il cinema non possa ammettere che un solo genere di film: quello in cui tutti i mezzi d’azione sensuale del cinema saranno utilizzati. Il cinema implica un rovesciamento completo dei valori, uno sconvolgimento dell’ottica, della prospettiva, della logica. È più eccitante del fosforo, più accattivante dell’amore”.

(Antoin Artaud, Del Meraviglioso)

La proiezione in Piazza Maggiore di Cantando sotto la pioggia è stata un’esperienza travolgente. Titoli di testa e colori sgargianti, canti e balli. Don Lockwood (Gene Kelly) precipita nella macchina guidata da Katy Selden (Debbie Raynolds) ed ecco che a partire da questo incidente non solo vengono presentati tutti e quattro i principali personaggi del film, ma la narrazione prende il via. Una trama avvincente che, dai primi minuti e fino al ritorno in scena di Debbie Reynolds, riesce a catturare anche lo spettatore più cinico per farlo entrare in quel meccanismo perfettamente funzionante.

La progressione narrativa è scandita da un calcolo perfetto dei ritmi, non ci sono sbavature, niente dura più o meno del giusto tempo. Gli ingranaggi funzionano esattamente come quando Donald O’Connor e Gene Kelly cantano “Moses Supposes”, uno scioglilingua che, come tutti gli esercizi del genere, gioca sulla difficoltà di mantenere un certo dinamismo durante la ripetizione prolungata.

Singin’ in the Rain è un film fatto di spettacoli che riflette sull’opposizione e sul passaggio fra cinema muto e cinema sonoro, che ironizza sugli attori e i modi di recitare e quindi sulla vocalità, sulla mimica e sull’uso del corpo nello spazio. Il grande trauma delle voci degli attori del cinema muto fu uno degli elementi che portarono al grande ricambio attoriale e all’interno di questo film tutto funziona in relazione al problema e alla potenzialità del sonoro nel cinema.

Le sale cinematografiche americane verso la fine degli anni Quaranta erano in declino e come scrive Robert Sklar i dirigenti degli studios cercavano di trovare degli stratagemmi capaci di arrestare il declino delle presenze del pubblico. Un’inchiesta del periodo bellico dimostrava che le commedie musicali erano le favorite, così la MGM iniziò a produrre film di questo genere e Singin’ in the Rain è uno degli ultimi film di questo filone. Una serie di film basata su una realtà per lo più fondata sui buoni sentimenti, ma sopratutto su una realtà falsa perché è puro spettacolo.

La nostalgia di Donen e Kelly per l’epoca d’oro di Hollywood è celata dietro personaggi che non affrontando reali difficoltà e che trovano nell’esibizione canora e danzata un modo per andare avanti. Il pubblico di Piazza Maggiore, straordinariamente entusiasta per riuscire a trattenere le proprie emozioni, finisce per applaudire alla fine di ogni numero musicale. Spettatori (cinefili e non e di tutte le età) abituati, rispetto alla sola televisione dell’epoca in cui uscì Singin’ in the Rain, ad avere accesso a diversi dispositivi tecnologici, utilizzati anche per guardare film pensati per lo schermo da sala, ma che hanno deciso di riunirsi in questa occasione per poter (ri)vedere il film mediante una fruizione più tradizionale. Ecco allora che la potenzialità di Singin’ in the Rain è ancora quella di smuovere il pubblico e riportarlo in sala, o comunque davanti al suo vero schermo.