Poche opere sono conosciute come la Carmen. E le sue arie, soprattutto l’Habanera e Toreador, sono tra le più abusate e decontestualizzate e quindi spesso private del loro profondo significato, dei misteri e dei problemi. Carmen è l’incarnazione del male per la mentalità maschilista, è una donna emancipata che degrada l’uomo perché libera, vivace e seduttrice, come molte altre eroine d’opera. Georges Bizet è musicalmente moderno e le conferisce una passionalità e una femminilità istintiva, malviste all’epoca. Combinando così l’aspetto esotico alla violenza e alla crudeltà della storia.

Nella partitura l’orchestra è sovrana e sebbene non vi siano tempi morti è sempre presente una sfumatura mortifera. Per questo Francesco Rosi decide di iniziare la sua rappresentazione visiva della Carmen dalla fine. Rosi realizza un film-opera molto fedele all’opera di Bizet, fondato su un buon connubio tra musica e immagine e lo ambienta in una Spagna solare, aiutato dalla bella fotografia plastica e dai toni caldi di Pasqualino De Santis. Infatti Rosi ricostruisce e conferisce una parvenza realistica alle diverse scene come quella della manifattura di tabacco dove Carmen e le altre donne lavorano. Lì si può notare l’enorme quantità di bambini, presenti in scena, che le madri affannate, accaldate, ma potenziali seduttrici come le altre, erano costrette a portare con sé.

Tornando alla sequenza iniziale, il torero Escamillo (Ruggero Raimondi) lotta per uccidere ferocemente il toro, il cui sangue sgorga e il pubblico esulta, ma tutti sono ignari di ciò che sta succedendo a Carmen al di fuori dall’arena. La macchina da presa di Rosi per questa sequenza usa per lo più campi medi, affidandosi anche alle capacità attoriali di Raimondi, per avvicinare lo spettatore alla crudeltà di quell’atto, rendendolo complice e facendogli condividere un profondo e cupo sguardo con il matador.

Invece la sequenza della morte di Carmen inizia con una visione più distante, la figura di un uomo piccolo che, in preda alla follia (amorosa), priva Carmen della sua vitalità: la sua vera essenza. Rosi se ne distacca, è addolorato e riporta Juilia Migenes e Plácido Domingo su un palco teatrale, più che cinematografico. Il cineasta si inchina e si fa sovrastare nei piani medi, ripresi dal basso verso l’alto, da Carmen e Don José. Alla violenza delle azioni di Don José su Carmen la macchina ne riprende il movimento facendo sentire la pressione su quella creatura che da libera e vivace, inizia a comprendere il suo fato.

La Carmen di Rosi si conclude con una sequenza finale bellissima giocata soprattutto su campi lunghi e che, grazie allo straordinario uso dei movimenti di macchina, lascia spazio anche all’ottima recitazione della Migenes.