“Pensa alla tua rappresentazione che io penso alla mia”, dice più o meno così il protagonista di Gigi la legge durante un sentito litigio notturno con un vicino lamentoso. Un grande film quello di Alessandro Comodin che, già dal suo titolo, si autodichiara focalizzato sul singolo, nel senso di individuale/locale, privato/personale e singolare/marginale. Un particolare lavoro di riflusso nel privato e nella provincia, ma anche un processo di reinvenzione e mescolatura delle carte sul tema del cinema del reale.

Tra suggestioni magiche e investigative, Gigi – vigile urbano di provincia – è l’enunciatore di uno sguardo meccanico prestabilito (gli itinerari in automobile), che fatica ad andare oltre (la voce, i cadaveri, gli incubi e i ricordi sono sempre fuori campo), che si aggrappa a ciò che di concreto c’è, vicino, qui e ora. Ma a questo sguardo aggiunge il voyerismo di chi, per noia o per vocazione, cerca qualcosa che va oltre, che sconfini, un colpevole anche quando forse non c’è, un giallo di provincia, un orizzonte possibile nella finzione.

Gigi la legge mette in campo una ricerca rituale e il pedinamento del suo protagonista nei confronti di un uomo in bicicletta per lui sospetto, trasuda quasi una speranza, quella di trovare una storia. E questa sembra poter esistere solo se affiancata indissolubilmente alla scoperta di un colpevole.

Chi è allora il colpevole? Cosa rende un personaggio tale? Ma, soprattutto, esiste? Lo possiamo vedere? Altri due film italiani usciti recentemente possono offrire un brevissimo spunto di analisi sulla rappresentazione di fuorilegge atipici, né eroi, né antieroi. Sono due film che si incontrano prima di tutto nell’essere due grandi (ennesimi) tentativi di cinema italiano medio e di genere. Da un lato un biopic con tratti comici e crime, coloratissimo e pop, ambientato a Napoli negli anni 80/90, Mixed by Erry, dall’altro un poliziesco nero, fermo e pieno di tensione, ambientato a Milano oggi, L’ultima notte di Amore.

Il fatto parte proprio da Mixed by Erry. Se c’è una cosa ormai chiara nel modo che Sydney Sibilia ha di concepire il suo cinema fuori dagli schemi è proprio quello di raccontare storie di personaggi controcorrente, imprenditori/fuorilegge che fanno in buona parte le veci del suo percorso nell’industria italiana. Freak lontani dai canoni, eroi stravaganti, emarginati ambiziosi che infrangono regole prestabilite, andando oltre, sempre troppo. Invece di focalizzarsi sul riscatto e sul senso di rivalsa (che le sfumature americaneggianti nel suo cinema sembrerebbero voler suggerire), Sibilia è più interessato all’assurdità di alcune storie vere che vivono perfettamente nel suo cinema postmoderno e, soprattutto, all’impaccio dei suoi personaggi fuorilegge.

Sono dei turisti del crimine, mossi sempre da nobili intenti e grandi sogni (“volevo solo fare il DJ”), innocenti nella loro colpevolezza. Al film interessa l’italiano che si improvvisa criminale, assolto da subito o mai ritenuto colpevole. Non ci si pone mai veramente la questione, perché nel cinema di Sibilia – e in particolare nel suo aspetto più “italianeggiante” – il criminale, per essere raccontato come tale, deve essere sempre accompagnato da un’intenzione (o meglio una “malintenzione”) chiara e caratterizzante.

Qualcosa di simile succede anche in L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano. Amore – che è sia il nome del protagonista che uno dei suoi “intenti nobili” – dopo trent’anni di onorato servizio come poliziotto e dopo aver accettato un incarico da privato (piccolo, ma leggermente più grande rispetto a quelli di cui si occupava da tempo), si trova coinvolto in qualcosa più grande di lui. Anche qui, quello che sembra trapelare – oltre a un grande racconto da megalopoli che vede il singolo inglobato nel grande flusso urbano indefinito composto da infinite macchine che sfrecciano impassibili alla morte e a qualsiasi cosa ad essa intrecciata – è il racconto né eroico né antieroico del protagonista. Amore “non ha mai sparato a nessuno”, eppure non è così senza macchia come sembra.

Se in Mixed by Erry il colpevole sembra poter essere definito tale solo se accompagnato da un’intenzione di colpevolezza – e quindi i “nobili intenti” e le ambizioni sognanti assolvono i suoi protagonisti – in L’ultima notte di Amore viene assolto solo se affiancato da un crimine maggiore. La colpevolezza maggiore sta fuori campo e assolve in parte un protagonista, colpevole minore, che cerca la sua via di redenzione zoppicante ma totalmente concessa dal film.

È come se il cinema italiano, in questi film, non fosse in grado di guardare in faccia il colpevole. Lo tiene in disparte. Non sa chi è, anche se spesso sembra trovarlo nei piani alti, nei poteri segreti e impuniti. Atterrito in un oceano di complessità, sembra trovare una sua onestà nel racconto del colpevole minore. Riduce i fatti a questioni private (il confronto tra Milano e Amore è schiacciante) e personali (amore in Mixed by Erry e famiglia in L’ultima notte di Amore).

Quasi come se non fosse neanche interessato a porsi la domanda. Si arrende in principio chiudendosi su di sé, sicuro della propria innocenza, vittima forse della propria alienazione. “Pensate alla vostra rappresentazione che noi pensiamo alla nostra”.