Milos Forman non si è mai limitato, nelle biografie che ha girato, a raccontare la vita della persona di cui si stava occupando: i suoi film non sono mai un semplice affresco storico o un ritratto psicologico tout court. Piuttosto, a livello di sceneggiatura – sia quando scritta in prima persona (L’ultimo inquisitore) sia quando tratta da opere teatrali (Amadeus) sia composta da professionisti del settore (Man on the Moon) – nei suoi film appare una costante: alcuni aspetti dei personaggi reali vengono presi e ingigantiti.
Ciò li trasforma in emblemi, simboli, archetipi. Di Francisco Goya gli interessava la scissione fra il coraggio dimostrato nelle opere e desiderio di non inimicarsi nessuno nella vita: lo definiva “il più coraggioso codardo nell’arte”. Il suo Goya somiglia a uno zio bonaccione e sensibile che cerca di mediare in situazioni assurde. Rappresenta l’umanità che fronteggia i mostri generati dal sonno della ragione: l’Inquisizione prima, il Terrore poi.
Di Andy Kaufman invece gli interessava l’estrema consapevolezza di quanto il realismo dei mass media fosse apparente: lo show man giocava sulla percezione dello spettatore alla maniera dei prestigiatori, fino al paradosso del personaggio che sopravvive alla propria morte (un principio che il cinema ha scoperto prima della televisione).
Quanto a Mozart e a Salieri, gli appassionati di musica del Settecento sanno bene quanto i personaggi interpretati da Tom Hulce e Murray Abraham siano lontani dal vero. Non che non sia accertato che Mozart, attorno al 1791, temesse per la propria vita: se non m’inganno è nella biografia di Georg Nikolaus Nissen, secondo marito di sua moglie Stanzi Weber (che certo non era quella bimba ingenua e tirchiotta del film), che quest’ultima racconta di una passeggiata nel Prater e di una confessione: “sono sicuro che mi stiano avvelenando”. L’accusato però non era certo il povero Salieri, bensì il gruppo di cantori italiani a corte Asburgo inquietati dai cambiamenti che un’opera in tedesco del calibro del Flauto Magico (nel film cantata in inglese) avrebbe potuto portare all’intero mondo musicale. Supposizioni.
E non so dire neanche se la potenza del cinema, creatrice di miti, abbia fatto male o bene a Salieri: come la Corazzata Potemkin, lo si conosce per sentito dire, per via di Forman, e non tanto come musicista ma come “rivale mediocre di Mozart” – quando in verità non è mai stato né rivale né incapace. Il finale del film, la benedizione dei mediocri, lo fa sembrare della stirpe degli “artisti falliti” cantati da Milva, tuttavia Salieri fu celebre e apprezzato in vita, fin da ultimo. La celebre mezzosoprano Cecilia Bartoli, paladina della “musica dimenticata”, dopo una lunga ricerca d’archivio, nel 2003 cantò il Salieri Album anche per riscattare il malcapitato compositore veronese da questo tipo di fama.
E allora, se non parla di Mozart, qual è il vero argomento di Amadeus che Truffaut, in barba alla morte imminente, desiderava tanto vedere al cinema? Di gloria, di arte ma soprattutto d’ingiustizia. L’ingiustizia perpetuata da Dio, da quell’entità trascendente che fa sì che i risultati, per cui tu persona seria hai pregato e lavorato sudando sette camicie, il tuo collega (amorale, odioso, spendaccione, poco cresciuto e “farfallone amoroso”) li ottenga senza sforzo.
“Davanti a Dio tutti gli uomini sono uguali” dice Padre Vogler a sei minuti dall’inizio del film: tutto il racconto di Salieri è volto a smentire questa frase. “Amadeus” significa “Amato da Dio” ed è questo amore incondizionato, questa assenza di meritocrazia divina che Salieri invidia. Infondo, Mozart era figlio d’arte, perciò avvantaggiato. Quanti artisti, seppur di talento, hanno avuto la strada spianata dal proprio cognome, anche se questa eredità talvolta può risultare pesante?
“La sola cosa che avessi mai desiderato era poter cantare Dio, una bramosia che lui mi aveva dato per poi rendermi muto.”, dice Salieri, “Perché? Me lo spieghi lei. Se lui non voleva che lo esaltassi con la musica perché instillarmene il desiderio, come una mania in ogni mia fibra e poi negarmi il talento?”.
Sì perché il suo rivale, questo ragazzino viziato, questa superstar che vive al di sopra dei suoi mezzi e si irrita a morte quando l’imperatore indice un concorso per ottenere un posto di insegnante a corte e non lo designa direttamente (come fa chi è abituato ad avere la strada spianata da padre prima e successo poi), purtroppo per il compositore veneto, di talento ne ha. In barba a tutto lo studio, la serietà, i voti di castità e la devozione di Salieri. Che inizia a passare al lato oscuro facendo proposte oscene a Stanzi Weber, infiltrando a casa Mozart una servetta impicciona, e infine facendosi passare per il solo amico a corte del compositore quando invece in segreto gli ha commissionato il Requiem maledetto che lo porterà, assieme al peso di un rapporto col padre complicatosi col trapasso di quest’ultimo, alla morte.
L’archetipo è quello della cicala e della formica. Una cicala molto talentuosa e una formica rosicante. Goya, Kaufman e Mozart/Salieri sono tre modi diversi di vivere il rapporto fra fama e mestiere artistico. Goya cerca di essere invisibile per non farsi troppo notare dall’Inquisizione. Utilizza la propria posizione di “pittore del re” solo quando non c’è altra maniera per ottenere informazioni. Kaufman costruisce da solo il proprio mito giocandoci: Tony Clifton (che nella vita reale fu interpretato, dopo la sua morte, da Bob Zmuda e talvolta da suo fratello Michael), è come l’immortalità garantita dallo spettacolo, seppure incredibilmente dotato di carne e ossa e non di sola apparenza come tutti i cari estinti dello show business.
E l’immortalità è quel che Salieri vorrebbe per sé, per cui prega. Vorrebbe dei riconoscimenti, ma ha sbagliato tempistiche. La posta in gioco non è uno status: un musicista a servizio di un nobile o un ecclesiastico è sempre un servo. Né si tratta di statue: la morte del corpo, del resto, è una livella e Mozart, senza una lira, viene gettato nella fossa comune. Tuttavia andarsene in giovane età si addice alle superstar: mentre l’uomo muore, la musica e il ricordo rimangono, più vivi che mai.
E non svanisce il mito di Amadeus nell’immaginario popolare: l’anno dopo il film la popstar austriaca Falco cavalcò l’onda di Forman con la hit Rock Me Amadeus. La sintassi filmica classica rende il film fruibile a ogni tipo di pubblico nonché parodiato a oltranza.