L'impellicciata Christine Darbon, moglie del proprietario del negozio di calzature, si prova delle scarpette dorate. Una visione celeste per l'imbarazzato garzone Antoine Doinel. Come Baci rubati, pure Golden Eighties introduce il personaggio della Seyrig, Jeanne, anch'essa moglie di un negoziante, mentre infila una scarpetta ma a un manichino. Un'amica bussa sulla vetrina che tutto a un tratto si materializza come ciò imprigiona Jeanne e la separa dallo spettatore. Ma lei per tutta risposta sfoggia un cordiale sorriso.
Anche la regina bianca del cortometraggio Qui donc a rêvé? sembra pienamente incosciente della sua frivolezza, della sua passività, della sua vita invetrinata. La vediamo preoccuparsi del proprio scialle, delirare di capigliature e uncinetto in forma di filastrocca, glorificare la bellezza della nuova regina, un'Alice persa in un labirinto di specchi, abbagliata dal luccichio della corona e dei diamanti.
Ma la bellezza è solo un valore imposto, che congela la donna nel suo riflesso, o può essere una forma di singolarizzazione, capace di affrancarla da ogni cliché, da ogni immagine preconfezionata? Per Christine Darbon essere una donna vuole dire truccarsi gli occhi, incipriarsi il naso. Vuol dire, inoltre, sfidare la riduzione a oggetto del desiderio di Antoine Doinel, nonché a fantasia sessuale del maschio autore romantico.
La scelta del ruolo ad opera di Truffaut è il riconoscimento di una figura, quella di Delphine Seyrig, disallineata, indocile, sfuggente, che ha sempre preferito lavorare su più fronti passando con disinvoltura dal modernismo artistico alla militanza politica, risultando ogni volta più un'enigma che una semplice “apparizione”.
Delphine utilizza il trucco per negare la propria immagine: così in Les Lèvres rouges impersona un essere mitologico il cui riflesso non può essere impresso da uno specchio, un vampiro. Un personaggio sfrontatamente “antiquato e anacronistico” che minaccia ogni velleità “documentaria”, nonché ogni pretesa di possesso da parte del maschio, liberando le giovani adepte, iniziandole al piacere dell'amore lesbico e del sangue maschile.
Nella sua produzione video Seyrig giungerà alla cancellazione della sua immagine a favore della presentificazione in quanto voce. Sois belle et tais-toi! rappresenta la definitiva evasione dalla vetrina. Se in Golden Eighties l'approccio dialettico-materialista di fedeltà assoluta alla vita invetrinata lasciava intendere l'oscenità della melanconia femminile, qui il medesimo procedimento s'accorda alle singolari voci di attrici esasperate dalle condizioni di lavoro e dall'ambiente cinematografico per materializzare in video una sorellanza fino ad allora inimmaginabile.
Girato in Portapak in formato da un pollice, la bassa qualità dell'immagine degrada il superficiale fascino delle foto per casting con cui vengono presentate le attrici per dare maggiore spessore alla loro voce. È riappropriandosi della voce che queste donne mettono in stato d'accusa un intero sistema produttivo che limita lo spazio e la gamma di espressione femminile sia sullo schermo che fuori.
Similmente agli altri film discussi, la Seyrig, incarnando un mistero, non fornisce immediate risposte su cui fondare un nuovo tipo di società o di morale, non prescrive leggi ma interroga i soggetti nella loro singolarità, nella loro esperienza personale, riuscendo al tempo stesso a porre questioni teoriche sulla funzione del bello nella società dello spettacolo.