Quando si parla di Robert Mitchum sono sostanzialmente due i generi cinematografici che vengono in mente: i western e i noir. Se per la prima categoria Mitchum è famoso per opere come La magnifica preda, El Dorado e A casa dopo l’uragano e per la seconda per Le catene della colpa e La morte scorre sul fiume, poco conosciuta è una pellicola che, nel 1948, per la regia di Robert Wise, seppe, anche grazie al talento di Mitchum, riunire questi due generi, di solito così distanti, ma mai tanto vicini. Il film racconta la parabola di Jim Garry, mercenario disilluso che viene assoldato dal potente mandriano, e vecchio conoscente del protagonista, Tate Riling per aiutarlo a strappare, con tutta la forza necessaria, i capi d’allevamento del rivale Lufton. Però, innamoratosi della figlia di Lufton e avendo compreso la disgustosa meschinità di Riling, Garry deciderà, anche per redimersi da errori passati, di passare dalla parte di Lufton, combattendo per la libertà e la giustizia.

Sebbene i cliché siano parecchi e la trama non si faccia troppi problemi dal seguire fedelmente una storia di base già riproposta in dozzine di altre pellicole western, Wise riesce a donare al film, grazie ad una fotografia stupenda ed ad una violenza cruda e sporca, mai celata allo spettatore, un’atmosfera estremamente cupa e deprimente, differenziandosi molto da altri western di quel periodo che preferivano, invece, puntare su un’immagine quasi idilliaca ed immacolata, dove il sole splende sereno su eroi che escono da ogni scontro e combattimento senza graffi e senza difficoltà. Sangue sulla Luna, invece, trova il proprio palcoscenico, il proprio ambiente, in paesaggi scuri e tetri, illuminati soltanto da una luna, citata anche dal titolo, che però non si vede mai. I volti quindi sono sempre nella penombra, che non fa altro, soprattutto nel caso di Mitchum, che esaltare le profonde rughe e borse sotto gli occhi, simboli perenni delle scelte sbagliate e dei travagli che molti anni prima il personaggio ha dovuto subire.

Quasi per accentuare questa ambientazione sinistra,  torva e inospitale, alle caldi estate dei deserti e delle praterie, alla sabbia che fa di contorno a quasi tutti i tipici duelli western si sostituisce la neve, un elemento quanto mai inedito in questo genere di pellicole. Anche tutti gli scontri, infatti, sono in un’assillante penombra, che non può far altro che aumentare la tensione, visto che, come i personaggi non possono vedersi al buio, così non può neanche lo spettatore. Nell’ombra di una locanda con le luci spente si svolge forse una delle scene più celebri del film, che vede il protagonista e l’antagonista Riling sfidarsi in un violentissimo combattimento, tanto realistico da fare quasi impressione.

Ed alla fine, sebbene vincitore, Mitchum si allontana non fiero e orgoglioso, a malapena ferito, ma claudicante e in affanno, con le ferite ben risplendenti al chiaro di luna. E così una storia di inganni, di tradimenti e di violenza viene raccontata di notte, al buio, dove nessuno riesce a vedere con chiarezza con chi sta parlando o chi sta loro venendo incontro. Una storia di sospetti e di meschinità che fa sì che questo western sia anche un perfetto noir, cosa avvallata dal fatto che il personaggio di Mitchum sicuramente non è un eroe, bensì un anti-eroe con un passato oscuro come la notte in cui è immerso, mosso però dal desiderio di ricercare la sfuggente luce della redenzione. Una storia che può sembrare prevedibile e già vista salvata da un’atmosfera che turba, insieme ai protagonisti, anche lo spettatore, per la sua inaudita cupezza.