Parlare di Titane è un po’ come buttare lo sguardo dentro la vertigine per provare a raccontare di che cose è fatta, quanto è profonda e dove conduce: è più una questione di sensazioni, di istinti percepiti, di fibrillazioni a fior di pelle, di stimoli che passano dallo stomaco prima ancora di raggiungere il cervello. Eppure, in un film che è insieme ipertrofia dell’inammissibile e accettazione incondizionata dell’anomalia vive un principio di razionalità comune a tanto cinema “normale”, una specie di classicismo narrativo dal quale però sono stati scortecciati i caratteri più concilianti. In questa folle liturgia del cattivo gusto e della sofisticazione, tra aberrazioni e stramberie fuori da qualsiasi pretesa di plausibilità, dove ogni scelta dei personaggi è una scelta estrema e dove ogni rapporto possibile tra loro evolve nella maniera meno ragionevole possibile, insomma in questa fantasmagoria incendiaria c’è qualcosa di terribilmente esatto, di paradossalmente troppo giusto.

Sospeso sul filo dell’ibridismo cinematografico, legato ad un concetto di post-contaminazione ancora tutto da postulare e figlio di tempi che verranno (Crash, infatti, era stato prototipo di questo tipo di avanguardia già venticinque anni fa ma in ogni caso non era andato così lontano), Titane dà valore assoluto all’idea di provocazione e ci costruisce sopra una grammatica intera, con le sue strutture e le sue coerenze interne, nel segno di un radicalismo visivo e di un integralismo narrativo capaci tanto di partorire immaginario quanto di alimentarlo col combustibile dell’anarchia.

Non è la provocazione presupposta, quella incipitaria e da lì in poi solamente ostentata dell’ultimo Von Trier ad esempio, rannicchiata tra il compiacimento di sé e il piagnisteo, non è la provocazione monouso di Gaspar Noè o quella elettrica, totalmente dirottata sui modi della violenza di Mel Gibson o Michel Franco. Non è nemmeno la provocazione intelligentissima di film come Un altro giro ed Ema, che saltano direttamente dalla parte opposta del campo da gioco e abbracciano discorsi che nessuno si sognerebbe mai di condividere con loro (da una parte c’è l’idea dell’alcol come panacea alla solitudine e alla depressione, dall’altra quella della volatilità gender come strumento di manipolazione dell’altro).

Titane, insomma, non è provocatorio per la posizione che assume rispetto ad una qualche forma di morale o perché sceglie di carnevalizzare l’orrido e il brutale, ma piuttosto perché racconta una storia estremamente classica attraverso il linguaggio meno adatto per poterlo fare: il che non significa avere a che fare con un genere diverso da quello necessario al tipo di racconto, ma anzi percorrerne il più possibile trovando incredibili mediazioni e sconsiderati incastri, secondo la fluttuazione degli stili richiesta dalla contemporaneità. Se Raw, l’opera prima con cui nel 2016 Julia Ducournau esordiva al cinema, era di fatto un incrocio tra il college movie e il film di formazione, in cui tuttavia il percorso di crescita portava alla presa di coscienza della propria inclinazione al cannibalismo (idea fortissima), Titane è una storia di struggimento paterno e riconciliazione filiale dove il figlio ritrovato fa ritorno alla casa del padre nel corpo di una misteriosa creatura un po’ uomo, un po’ donna, un po’ macchina, con il solo desiderio di essere amata fino in fondo, finalmente e senza riserve.

In questo film erede di tanti maestri ma assemblato e sabotato come se non ne avesse, sintomo della fluidità dei generi e del metamorfismo tipico dell’era tecnotronica dove ogni cosa è la sommatoria di infinite intersezioni e integrazioni, il personaggio di Alexia significa il mondo nostro e quello che ci sarà dopo, ne porta addosso gli innesti e le ferite in un corpo tutto futuribile, che fa sesso con le automobili rimanendone incinta e che non si impone interdizioni di alcun tipo, distruggendosi e aggiustandosi continuamente.

Questo delirio libertario, questo desiderio incontrollabile di andare ovunque e oltre l’azzardo vengono sguainati con fierezza ad ogni momento opportuno eppure, snebbiate le atmosfere di perversione, sopravvivono le vicende molto semplici di un rapporto padre-figlia indagato con il livello massimo della profondità: Vincent è un uomo che si guarda mentre il tempo lo rimpicciolisce nel corpo, che a fatica e solo con l’aiuto degli steroidi conserva ancora i segni di una passata grandezza, e che attende il ritrovamento del figlio, scomparso in tenera età molti anni prima, quando ormai tutte le persone intorno a lui hanno perso le speranze.

Non è chiaro se Vincent riconosca davvero il proprio figlio ormai cresciuto nel volto di Alexia, conciata per assomigliargli soltanto perché braccata dalla polizia a causa di una lunga serie di omicidi, o se cerchi soltanto di convincere sé stesso che lo sia; entrambi sono solitudini alla disperata ricerca l’uno dell’altra e il bisogno d’amore anticipa la verità delle cose, forse addirittura esige che queste non vengano divelte almeno finché le circostanze non lo renderanno strettamente necessario.

Cinema funambolico, complicatissimo da pensare e da attuare, capace di cadere sempre in piedi dopo ogni sua singola acrobazia e preciso nella reiterazione di sé e del proprio spirito sovversivo, Titane è allo stesso tempo poetica dell’assurdo e matematica delle emozioni, esaltazione del corpo piegato e dissimulazione della dolcezza che lo muove e che lo abita: meraviglioso e sconvolgente, la Palma d’oro dell’ultimo Cannes è un film che si concede tutto negandosi i postumi dell’euforia, che spalanca vertigini prive di orizzonti e piene di lascito.