Julien Duvivier, il regista di questo incredibile La Fête à Henriette, conta sempre più seguito fra i cinefili, ma ad oggi nè l'uno nè l'altro sono quel che si dice di grido. Il gioco a incastri metacinematografico di Henriette inizia fin dai titoli di testa, con una sfilza di punti interrogativi nei credits, e subito all'autoironia di Duvivier si sovrappone il gelo che non può non cogliere l'aficionado nel vederli campeggiare al posto del suo nome. Ciononostante la sala gremita di ieri pomeriggio e le risate di un pubblico particolarmente reattivo lasciano sperare che qualcosa inizi a muoversi.


Ridevano perché questo film, affossato dalla critica all'epoca della sua uscita nel 1952, è prima di tutto una "one-of-a-kind comedy", talmente in anticipo sui tempi che avrebbe potuto venire in mente al Woody Allen di Melinda & Melinda (2004); se poi appartenesse alla Nouvelle Vague, le cui scintille con Duvivier sono ormai proverbiali, lo troveremmo citato in ogni dove; trionfa prima di tutto nel ritmo diseguale e travolgente, nella tempestività di ogni gag e linea di dialogo; fa insomma passare in un amen le sue quasi due ore, ma fa anche molto di più.


Henriette racconta la storia della lavorazione di un film; non delle riprese ma del concepimento di intreccio e personaggi ad opera di due sceneggiatori, uno (Louis Seigner) più legato a dinamiche da roseo melodramma a lieto fine, l'altro (Henri Crèmieux, santo subito) assetato di sangue, sesso e dramma a tinte foschissime; è vero che Duvivier si diverte un mondo a mettere alla berlina entrambi gli approcci, i più in uso all'epoca: in una scena irresistibile, una delle tante - lamentandosi dell'impossibilità di trarre ispirazione per buoni film di successo dalla realtà di tutti i giorni – i due leggono con disappunto il giornale, fra le cui notizie c'è un caso di cronaca che è pari pari la trama di Ladri di Biciclette.

Ma l'amore per la propria arte/professione vince sullo sberleffo (meglio ancora, le due cose vanno serenamente a braccetto); il bello di questo "film nel film" è che - ancora lontanissimo dall'essere girato - possiamo vederlo prendere forma e modificarsi nella fantasia galoppante dei suoi creatori, assolutamente libero da qualsiasi condizionamento esterno. Scene come quella in cui - all'esclamazione "chi le mette più le bandiere alle finestre?" - i festoni del 14 Luglio francese spariscono di botto; o come tutte le sequenze concepite dal delirante sceneggiatore del turpe, girate nessuna esclusa con inquadrature abnormemente sghembe e fotografia da romanzo hard-boiled; pur nella tagliente parodia sono anche e soprattutto un inno alla gioia estatica della creazione, nel segno di un arbitrio assoluto e sconsiderato; la mente è la prima sala-proiezioni, e Crèmieux che sceneggia e insieme già dirige il "suo" film saltellando per la stanza e sparando a raffica indicazioni di movimento e inquadratura non è solo esilarante: è commovente;

La Fête à Henriette è una vera e propria mosca bianca : autoironico, ma anche insolitamente cinefilo. Non a caso l'ultimo scherzo del film consiste nel ribaltare l'incipit, con i punti interrogativi finalmente sotituiti dai nomi ; "un film di Julien Duvivier...".