USA 1968, quattro venditori porta a porta. Al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, non hanno capelli lunghi né indossano t-shirt psichedeliche. Gli attori - attori sociali – del documentario dei fratelli Maysles portano camicie bianche, cappelli a caciottella e bussano alle case di un'America distratta dalla musica o dal dibattito sul Vietnam e concentrata, invece, sulla quotidiana sfida di avere il pane in tavola e pagare le bollette. Cosa vendono i quattro salesmen? Uno dei best seller dell'industria editoriale, la Bibbia.

Charles McDevitt l'Imbroglione, Raymond Martos il Toro, James Baker il Coniglio e Paul Brennan detto il Tasso sono i quattro venditori di Bibbie. Ciascuno diviene un personaggio, delineato secondo il proprio carattere e il proprio approccio di negoziazione, e viene presentato con tanto di nome e soprannome in sovrimpressione alla prima comparsa sullo schermo. Il titolo del film, tuttavia, è al singolare e infatti è Paul il protagonista indiscusso, l'unico a non concludere nemmeno una vendita per tutta la pellicola. Il lungometraggio si apre e si chiude su di lui e, se all'inizio lo vediamo intento e intenzionato a concludere l'affare nel salotto di una signora, alla fine lo conosciamo per quello che è: un uomo non diverso dalle persone a cui cerca di smerciare il prodotto, un lavoratore che fa un mestiere in cui non crede e che non lo soddisfa, ma necessario a mantenere una moglie e un figlio lontani, che ogni tanto sente per telefono.

Salesman è un oggetto tutto in divenire che, in quanto fedele testimonianza dell'essere umano, vive di contrasti. Primo fra tutti, uno dei più lampanti temi del racconto, quello che ci mostra come negli anni Sessanta (o meglio, a partire dagli anni Sessanta) anche la religione è un prodotto di massa, un bene del consumismo, un articolo disponibile in più varianti, con diversi prezzi e modalità di pagamento. Questo è uno dei primi aspetti ad essere colto durante la visione e suscita delle risate negli spettatori in sala, che vivono con comica distanza queste arcaiche e truffaldine tecniche di marketing e, allo stesso tempo, le vivono da vicino, consapevoli che l'assurdità presente sullo schermo è solo l'inizio del mondo in cui camminiamo oggi.

In linea con gli studi di uno dei maggiori esperti di documentari, Bill Nichols, questo film risponde alla descrizione dei documentari di ritratti personali (in opposizione a quelli su questioni sociali) in cui “se i più ampi temi sociali sono evocati nel film, essi restano sullo sfondo. Gli individui ritratti nel film testimoniano o sperimentano implicitamente la questione di fondo senza necessariamente identificarla”. Di fatto Salesman non ha una morale da lasciare allo spettatore né parteggia per l'uno piuttosto che per l'altro: venditori e clienti sono ripresi con il medesimo occhio e il film vive dell'immediatezza documentaria delle riprese. 

I fratelli Maysles, infatti, entrano silenziosi nel quotidiano delle persone che aprono la porta ai venditori e, a coloro che lo permettono, spiegano la volontà di filmare una storia di interesse umano su Paul e i suoi tre colleghi. L'importanza di ottenere la fiducia con le persone la ribadisce più volte la montatrice Charlotte Zwerin (poi inserita come co-regista nei crediti dai fratelli Maysles, dato l'importante contributo del suo lavoro sul girato), che inserisce spesso le inquadrature dei piedi dei venditori nel momento in cui varcano la soglia, come fosse la prima imprescindibile conquista, lo stesso momento in cui i due fratelli con la cinepresa sulle spalle possono imprimere sulla pellicola l'intimità di quegli attimi tanto delicati.