Durante la visione dell’ultima pellicola di Lukas Dhont, non si può fare a meno di ricordare un cortometraggio, Trevor, di Peggy Rajski. Datato 1994, premiato l’anno successivo con il Premio Oscar, segue le vicende di un tredicenne, Trevor, fervido ammiratore di Diana Ross e animato da una smisurata passione per il teatro. Un giorno, scopre di essersi innamorato di un ragazzo conosciuto a scuola, Pinky. Quest’ultimo, intuita l’infatuazione dell’amico nei suoi confronti, sulle prime, si dimostra inaccessibile. Poi, gli ingiunge di non rivolgergli più la parola, discriminandolo e reputandolo un debole, usando un eufemismo. Come se non bastasse, nemmeno la sua famiglia sembra ascoltarlo.

Per farsi notare dai genitori, Trevor inscena frequentemente la sua morte. Imitando, in tal senso, il quasi coetaneo Harold di Harold e Maude, diretto da Hal Ashby. Com’è facile immaginare, né la madre né il padre abboccano, stroncando la possibilità di un reale dialogo in casa. Dal canto suo, Trevor vuole soltanto essere se stesso. Tuttavia, non tarda a nutrire pensieri tali da indurlo a tentare il suicidio, credendosi sbagliato. Fortunatamente, il protagonista viene salvato in tempo. Convalescente, diverrà più consapevole del suo valore, continuando a coltivare gli stessi interessi per i quali si era sempre contraddistinto.

Si cita Trevor per un motivo. Nonostante la limitata durata, è un esempio di cinema che ha bene in mente il suo pubblico di riferimento. Nella sua apparente giocosità, Trevor si rivela una storia dotata di una potenza non comune, capace di suscitare un grande impatto emotivo in qualunque spettatore. Naturalmente, non si pretende che Close ispiri la fondazione di un’organizzazione simile a The Trevor Project, ente che ha aiutato tante e tanti giovani LGBTQIA+ a rinunciare al proposito di togliersi la vita. Tuttavia, pur essendo, sulla carta, un racconto scuotente, il dubbio urticante che Close sia poco più che un esercizio di stile permane.

Scansando ogni equivoco, Lukas Dhont è un regista di indubbio talento. Insieme ambizioso ed elegante, sa levigare con una calcolata precisione, fotogramma dopo fotogramma, la sua opera. Prova ne è, per fornire un esempio, una prima parte di pellicola ispirata, incardinata su un’idilliaca amicizia. Rémi e Léo sono migliori amici. L’uno è il fondamentale sostegno all’innocenza dell’altro. L’estate scorre senza colpo ferire, come una corrente diretta a certe profondità rocciose. L’arrivo dell’autunno non sembra attenuare la forza del legame costruito in anni di risate e giochi spensierati. Dai sorrisi pare emergere, limpida e incontaminata, la tenerezza tipica del primo amore. Fino allo stacco che farà precipitare la situazione. Lo sguardo maligno di un compagno ancora sconosciuto. Ogni punzecchiatura dell’aria, così, contagia presto gli altri studenti, agenti moltiplicatori di un odioso pregiudizio modellato dagli adulti.

Compiaciuta della sua danza di metafore, inizialmente delicata, come l’oboe suonato da Rémi, a lungo andare ridondante, come la serie di cadute sul ghiaccio in cui incorre l’hockeista Léo, la mano di Dhont si rivela prevedibile. Nella silenziosa e perfida nonchalance con cui Léo si distacca dall’ignaro Rémi durante un momento di riposo, insieme alla fredda conseguenzialità dei singoli gesti, alberga la smania di un giovane regista impaziente di affermarsi.

Un autore conscio del proprio talento, dopo un esordio non indifferente quale Girl. Tuttavia, affiora una domanda, considerata l’ambivalenza del titolo. Dove sono vicinanza ed empatia? A volte, conviene fare un passo indietro, dosare il proprio estro, manifestando così una maggiore genuinità. O conveniva, rivolgendosi alla platea della Croisette, insistere sul versante della chiusura, ribadendo ad alta voce la propria presenza?

Si avverte la sensazione di assistere alla macchinosa esecuzione di un’opera tanto attesa. Un’opera in cui il suo autore, avvolto nel mistero di uno stile di maniera, a furia di sviscerare e pedinare note e movimenti dei personaggi, finisce preterintenzionalmente per asportare il succo delle emozioni. Come occorre poco tempo a enunciare lo schema memorizzato, così si potrebbe riassumere Close in quarantacinque minuti.

Come se, insieme a Léo, nella scena chiave, in un angolino in fondo allo scuolabus, pieno di domande esistenziali impossibili da ridurre ad altezza bambino, ci fosse anche Lukas Dhont. Il passaggio traumatico dall’infanzia all’età adulta è un momento difficile da gestire all’interno di un film. Alla base di ogni riflessione, avrebbe giovato, forse, prima di qualunque orpello à la Malick e sguardo rivolto simbolicamente al passato, a chiusura del cerchio, una più accorata sincerità, l’elemento smarrito nella rifinitura dell’ingranaggio.

Nonostante l’assenza di un vero discorso sull’elaborazione del lutto, sulle aspettative di una società intimamente intollerante, il regista fiammingo mantiene una notevole sensibilità nello scegliere i suoi interpreti. Pur rivelandosi un opaco affresco dell’adolescenza, per quanto ben confezionato, le lacrime a fior di pelle di Léo (Eden Dambrine), durante un assolo di oboe eseguito dal fedele Rémi (Gustav de Waele), restano un dettaglio di assoluta finezza.

Anche se sprovvisto della secchezza narrativa e dell’immediato lirismo di Children di Terence Davies, Close rimane comunque un oggetto da tener d’occhio. A soccorrere Dhont, il tempo per raffinare uno stile non banale.