Il rapporto tra realtà e finzione caratterizza da sempre gran parte del pensiero umano. Non una dicotomia, bensì un dialogo, una danza che dalle caverne platoniche si è diramata seminalmente nel tempo e nello spazio, sino a cingere lo sviluppo del cinema. Un rapporto in inesorabile crescendo che ha preso ancor più forza e centralità dalla seconda metà del Novecento, soprattutto nella produzione artistica e audiovisiva contemporanea, in un mondo sempre più proliferante di immagini. DAU. Natasha, film diretto da Ilya Khrzhanovsky e Jekaterina Oertel e presentato alla 70° edizione del Festival di Berlino, rielabora tale rapporto annullandolo e rigenerandolo, ragionando sulla frattalità del reale. Lo fa in quanto tassello di un vasto mosaico, uno dei progetti, denominato DAU, più ambiziosi della storia del cinema e non solo, perché racchiuderlo in un unico ambito risulta impossibile.
L'idea iniziale di Khrzhanovskiy era quella di realizzare un singolo film biografico su Lev Landau (da cui DAU), fisico sovietico vincitore del Premio Nobel nel 1962, ma ben presto le potenzialità del progetto si sono ampliate, trascinando il suo creatore in un tortuoso viaggio. Nel 2009 è stato costruito un istituto di ricerca a Kharkiv, in Ucraina, che è diventato il più grande set cinematografico mai realizzato in Europa. Per tre anni, fino al 2011, vi si sono rinchiusi oltre 400 attori non professionisti che hanno mantenuto il proprio nome e la propria professione, scienziati, operai, matematici, musicisti, artisti, soldati, camerieri, ed è stata ricreata nel dettaglio la vita in Unione Sovietica tra il 1938 e il 1968. Ne sono scaturite più di 700 ore di riprese che hanno dato, o daranno, alla luce quindici film, sei serie tv, una mostra colossale a Parigi.
Una creatura che ha preso vita autonomamente e ha sfidato il controllo del proprio dottor Frankenstein, portando allo sviluppo di una vita parallela, un microcosmo isolato in cui centinaia di persone hanno abbandonato il privato e rimodulato il quotidiano per convivere e dar forma ad un abbacinante sperimentazione che ha unito cinema, performance, arte, scienza, antropologia. Il tempo, lo spazio e i corpi sono diventati pedine mosse abilmente che hanno permesso alla finzione di oltrepassare la realtà con una totale coincidenza di persona e personaggio, Storia e presente, vita e set.
DAU. Natasha è il primo dei film del progetto a essere stato mostrato al grande pubblico e, coraggiosamente e sagacemente, è stato distribuito nelle sale italiane da Teodora Film. Segue le giornate di Natasha, che lavora nella mensa dell'istituto di ricerca, e della giovane collega Olga, articolandosi in cinque macro-sequenze: il litigio tra le due donne al momento della chiusura serale della mensa, l'esperimento scientifico, la festa a casa di Olga in compagnia di alcuni scienziati che termina con un rapporto sessuale tra Natasha e un fisico francese, il momento della chiusura in cui Natasha spinge Olga a ubriacarsi e l'interrogatorio nelle stanze del KGB, accompagnato da violenze.
Pur essendo parte di un progetto più esteso, il film ha una propria autonomia narrativa e rilevanza formale. La dilatazione temporale che caratterizza le macro-sequenze lascia campo libero ai (non) attori, esaltando la genuinità di gesti, espressioni e interazioni. È un film prevalentemente sui rapporti, sia spaziali che umani. I luoghi assumono un forte rilievo, in particolare la mensa, nella quale si ritorna a intervalli regolari. Sono spazi caratterizzati al tempo stesso dal senso di intimità, scandita dalla quotidianità, e di oppressione, che isolano e racchiudono progressivamente, con effetto matrioska; dal set gigantesco dell'intero progetto si passa ai luoghi ristretti di DAU. Natasha, finendo poi nelle minacciose celle del KGB e nella piccola piramide nella quale si svolgono gli esperimenti scientifici.
Ancor più evidenti sono i rapporti umani che intercorrono in prima battuta tra Natasha e Olga, anch'essi ora amichevoli, ora ostili. Le prime quattro macro-sequenze e i molteplici intrecci relazionali sono propedeutici alla sequenza dell'interrogatorio da parte del KGB, nella quale si esplicitano le subdole e feroci dinamiche di potere e l'effetto esercitato sulla mente. Dinamiche totalitarie segnate da un'infida ambivalenza, alternanza tra rassicurazione e dispotismo. Grande attenzione è riservata inoltre ai suoni, legati al gesto; l'accensione di una sigaretta e l'alcol versato nei bicchieri assumono quasi una cadenza tridimensionale, con il bere che diventa azione filologica.
Le forme della dittatura vengono espresse anche tramite l'immagine e l'utilizzo della macchina da presa. La macchina a mano fluttua costantemente, una presenza fantasmatica che segue i personaggi e che sembra controllarli. Non ci sono filtri e tutto è lasciato in scena, con il tempo del racconto spesso prossimo al tempo della storia. I lunghi litigi tra le due donne, il rapporto sessuale (reale), Olga che beve fino a star male e vomitare, l'utilizzo di una bottiglia come strumento di violenza durante l'interrogatorio, niente viene precluso. È un uso dell'immagine che può destare perplessità e critiche ma che non sfiora minimamente la gratuità. Rappresenta un'erosione del privato conseguente a ciò che il film mostra e racconta e di cui si lamenta la stessa Natasha, restituendo la violenza di una verità che supera il reale e che è alla base della dittatura, ma non solo.