Nel 1952, nel momento in cui sarebbe dovuta decollare, la carriera di Lee Grant fu stroncata dalla Commissione per le attività antiamericane, che per 12 anni le impedì di lavorare a Hollywood. L’esperienza acuì la sensibilità per i problemi di chi, come lei, si era trovato calpestato dal sistema – tema che divenne filo conduttore dei suoi documentari.

In Down and Out in America (1986), il più celebre, Grant rivela la povertà epidemica causata dalla presidenza Reagan (1981-89), i cui effetti andarono ad aggiungersi a quelli della recessione innescata nel ’73 dalla crisi del petrolio e dai costi della Guerra Fredda. La situazione fu aggravata dagli esperimenti monetaristi della Banca Federale, che sotto la guida di Paul Volcker (1979-89) affrontò l’inflazione riducendo drasticamente l’offerta di moneta: i tassi di interesse schizzarono alle stelle, devastando il settore agricolo e manifatturiero, da un giorno all’altro impossibilitato a prendere prestiti e investire – mentre il potere che si andò a concentrare nelle mani dei creditori divenne uno strumento disciplinare contro sindacati e lavoratori.

La medicina amara dell’austerity fu supportata con fede incrollabile da Reagan, che accusava il liberalismo di ascendenza progressista di invasività nei confronti dell’economia e della libertà imprenditoriale, e di alimentare una spesa pubblica incontrollata premiando i non meritevoli; per rimettere in moto l’economia, sarebbero stati necessari dei tagli alla spesa, a partire dall’assistenza sociale, assieme allo stimolo di offerta e produzione seguendo le teorie della supply side economics, secondo cui privilegiare le imprese (e di fatto, i ceti più abbienti) attraverso una deregolamentazione rampante e la riduzione delle imposte avrebbe fatto percolare i nuovi profitti verso il basso.

Down and Out in America smentisce tragicamente la retorica reaganiana mostrandoci delle vite appese a un filo. Ogni storia, presentata in relazione alle più ampie questioni strutturali, è una sfida agli stereotipi sulle categorie di persone esposte a rischio di povertà o di rimanere senzatetto: i “down and out” intervistati da Grant sono di classe, etnia, età e collocazione geografica diverse, a indicare come in assenza di reti di sicurezza sociale bastasse un colpo di sfortuna per rimanere in trappola – non a caso il film si apre con le testimonianze di quella classe media impoverita che, credendosi al sicuro, aveva considerato accessorio il welfare state edificato da Johnson.

Grant si sposta poi in Minnesota per intervistare gli agricoltori lasciati sul lastrico dalle politiche fiscali, fra chi medita il suicidio per salvare la famiglia grazie all’incasso dell’assicurazione e chi protesta contro le minacce di pignoramento di banche sciacallo, dedite a stime speculatorie del valore del terreno e pronte a rivendere le proprietà alle grandi corporazioni, svuotando il Midwest di fattorie a conduzione famigliare.

Sullo sfondo del cambiamento radicale dei modi di produzione che accompagnò la terziarizzazione dell’economia, Grant dialoga coi disoccupati sostituiti con la manodopera più economica del Sud o dei paesi Terzo Mondo grazie alla deregulation: lungi dal percolare, i profitti accumulati dai sempre più ricchi vengono rivelati come prodotto della speculazione sulla pelle dei lavoratori.

A Los Angeles, Grant filma la quotidianità a Justiceville, una baraccopoli organizzata su un lotto libero – e smantellata come se a essere inaccettabile, più che la povertà stessa, fosse la sua visibilità. A New York, aggirando il divieto di filmare, la regista mostra la fatiscenza dei welfare hotel istituiti per far fronte alla crisi abitativa, di fatto intrappolando migliaia di persone in un ciclo di povertà coi loro costi sproporzionati.

C’è chi ha perso la casa dopo il licenziamento, donne vittime di abuso domestico costrette a lasciare tutto per sfuggire ai loro persecutori, chi è rimasto sfollato dopo un’ondata di incendi. Confinati in quartieri con un tasso di criminalità altissimo, è considerato un rischio accompagnare i propri figli alla fermata dell’autobus e la normalità girare armati; una generazione di bambini sottonutriti vive porta a porta con spacciatori e prostitute, ammassata con la famiglia in camere minuscole in cui occorre l’ombrello per poter usare il bagno.

La testimonianza di una giovane coppia a fine documentario è forse la doccia fredda più intensa del film, quando le domande gentili ma penetranti di Grant danno sfogo a una confessione straziante – la depressione, la sensazione di invecchiamento precoce, l’impoverimento delle relazioni umane; il senso di alienazione letteralmente incarnato nella sensazione di essere dei pariah alla festa promessa del sogno americano.

Quel che Grant suggerisce è che il mito dell’America terra delle opportunità sia stata piuttosto l’oppio del suo popolo, l’interiorizzazione della colpa di aver fallito il necessario contraltare per mantenere occultati i meccanismi di oppressione con cui, alla fine degli anni ’80, gli Stati Uniti si avviarono a un processo di ridistribuzione della ricchezza verso l’alto, inquadrato nella sua espansione su scala globale come una “rifeudalizzazione dell’economia” da studiosi come Jean Ziegler e Sighard Neckel.

Non deve dunque ingannarci l’apparente ultra-americanità del documentario di Grant, che fotografa il momento in cui gli Stati Uniti, dopo l’uscita da Bretton Woods, si preparavano a riprendere le redini dell’ordine internazionale – operazione che presupponeva certamente un riordino dei conti in casa. Down and Out in America ci mostra come l’era reaganiana sia stata un periodo di sperimentazione cruciale per molte ricette politico-economiche del nostro tempo, progressivamente perfezionate all’insegna di ciò che sociologi e politologi come Luciano Gallino e Michael Lind hanno definito apertamente “guerra di classe dall’alto” – a partire dall’imposizione dell’austerity in assenza di negoziazione fra le parti sociali, utilizzando la retorica di uno stato emergenziale presente o potenziale per presentare come puramente tecniche manovre dalle inevitabili conseguenze politiche.

Con rabbia e compassione, Grant ci ricorda piuttosto come la depoliticizzazione delle politiche economiche nel discorso pubblico e l’accettazione della disuguaglianza quale fatto naturale e ragionevole siano già, in sé, strategie politiche.