Il secondo capitolo della trilogia di Dune si lascia alle spalle l’innocenza del suo protagonista, Paul (Timothée Chalamet), e ne racconta la rapida crescita ritrovandolo là dove lo aveva lasciato: tra i Fremen, la schiva popolazione che abita il deserto, orfano del padre, degli amici e del suo palazzo. Da decenni il popolo dei Fremen viene marginalizzato nel deserto di Arrakis, in guerra con chi in quel momento detiene il potere di estrarre la “spezia”, una sostanza a metà tra una droga e un carburante e per questo contesa a livello intergalattico. Questa attività illegale colloca il popolo al di fuori delle dinamiche politiche raccontate nella prima parte, tutte giocate tra un Imperatore e le diverse casate – tra cui quella degli Harkonnen – a lui sottoposte.

La prima parte del secondo capitolo racconta quindi l’evoluzione del rapporto tra Paul e i Fremen e di come il ragazzo entri a farne parte, se non per sangue, almeno per diritto acquisito. Paul stringe così un rapporto sempre più stretto con Chani (Zendaya) e impara le usanze Fremen fino ad assumerne il ruolo di condottiero e di guida. Dune appare quindi come la storia di un personaggio che esce dalle dinamiche di potere in cui è nato: da Paul Atreides, erede di una delle casate più vicine al sovrano, a Paul Usul Muad’dib, capo della resistenza a quello stesso potere sovrano (dove l’evocativo Muad’dib significa “colui che mostra la via”).

Fin qui, la crescita del personaggio di Paul aderisce alla figura post-coloniale del white messiah, colui che conduce la rivolta di un popolo oppresso senza farne parte in senso stretto – essendo, anzi, nato e cresciuto nella classe dominante. Anche la condizione dei Fremen aderisce perfettamente a una prospettiva post-coloniale, dove soggetti subalterni sono asserviti ad un potere da cui sono completamente esclusi e per essere liberati devono affidarsi a un salvatore esterno.

Il titolo di Muad’dib, però, ha una doppia valenza. Tra gli stessi Fremen, infatti, c’è chi è convinto che Paul sia davvero il nuovo Messia, una figura profetica che li salverà dall’emarginazione nel deserto e li condurrà verso il “Paradiso verde”. È una credenza diffusa dalle Bene Gesserit, una setta religiosa di donne che manovrano nell’ombra il destino di Arrakis, e di cui la madre di Paul fa parte (Rebecca Ferguson).

Paul sa che arrendersi al ruolo messianico impostogli dalla profezia delle Bene Gesserit – reale o inventata che sia – significa scatenare una jihad che non vuole; ma la sua sola presenza tra i Fremen rende la marginalizzazione del popolo nel deserto insufficiente per tenerlo sotto controllo. Man mano che la fede dei Fremen in Paul cresce, infatti, la casata degli Harkonnen fa sempre più fatica a controllare Arrakis per estrarne la spezia, e inizia così ad attaccare attivamente la popolazione, bombardandola. Da lì, una guerra diventa inevitabile e Paul sarà costretto ad abbandonarsi alla profezia che lo vuole leader e anima della rivolta – vaticinante, se non addirittura dispotico.

In Storia della sessualità, Michel Foucault nota che “là dove c’è potere c’è resistenza e tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”. Secondo Foucault, l’individuo non è asservito al potere, quanto piuttosto ne assorbe le azioni e i meccanismi, facendoli propri. Per il filosofo, insomma, la costruzione della soggettività non sarà mai naturale, bensì dipenderà dalla norma stabilita dallo status dominante; ciò vale a prescindere da dove essa si collochi rispetto al potere – cioè, vi si adegui, o vi si opponga.

Al di là delle interpretazioni che sono state fatte di tale visione (peraltro recuperata dalla filosofa Judith Butler e ben lontana dal suggerire che la resistenza, in quanto nata all’interno del potere stesso, sia inutile), la prospettiva di Foucault permette di ri-leggere la suddivisione tra dominatore e subalterno in alcune sue declinazioni post-coloniali. In tal senso, nella parabola di Paul Atreides c’è l’intera essenza del potere foucaultiano, perché rappresenta una resistenza nata nel e dal potere dominante e in quanto tale incapace di smarcarsi dalle sue dinamiche.

Questa parabola in realtà critica e problematizza l’archetipo del white messiah, mettendone in aperta discussione la genuinità e, soprattutto, la portata morale. Se infatti, come scrive Daniele Comberiati, la figura del white messiah rappresenta quasi una forma di controllo esercitata dalla classe dominante sulla rivolta a un sistema che lei stessa ha creato, inglobandola e rendendola innocua, Paul usa invece la sua provenienza privilegiata per scatenare la rabbia degli oppressi, liberarli, scardinare il sistema di potere in cui è nato e instaurare il proprio. In Dune, insomma, il white messiah smette di essere un vuoto archetipo post-coloniale e diventa un’altra incarnazione del potere dominante, che però rifiuta di farsi inglobare.

Se gli eroi delle favole vogliono essere onesti, moralmente ineccepibili e pretendono di raccontarci di ciò che è “giusto”, Dune racconta invece un’altra storia. La rivolta e la violenza che l’accompagna vengono dal potere, in quanto esistono a causa sua: il bene e il male che accadono dopo questa semplice constatazione, sembra suggerirci un Paul Atreides ormai completamente trasfigurato in un messia vendicatore, ne sono solo una naturale conseguenza.