Leningrado, 1945. Primo autunno dopo la guerra. Le macerie sono strutturali, relazionali, emotive e psicologiche. Iya e Masha lo sanno bene. Una è un’infermiera spilungona (da qui il significato di Dylda: titolo originale del film), bionda, timida e vittima di uno stress post-traumatico che, di tanto in tanto, la blocca; l’altra è stata al fronte, più sfrontata e, da quando è tornata, vive insieme all’amica. Ad unirle la morte di un bambino, il figlio di Masha, e la ricerca insistente (come per l’Europa intera) di un futuro: realtà o illusione che sia.
Kantemir Balagov - regista russo, classe 1991 - decide di mostrare la condizione sociale postbellica, sottofondo di tutto il dramma, partendo da un ospedale. Non c’è modo migliore, infatti, per raccontare il dopoguerra. I luoghi che accolgono l’inizio del film - come dei bunker in cui ancora il popolo si ripara - creano divisioni simmetriche e sintetiche tra uomini e donne, tra stanze d’ospedale piene di reduci di guerra paralizzati o tumefatti e corridori popolati da infermiere dalle quali, invece, parte la ricostruzione. Questa, però, non è così facile e immediata, le divisioni sono ancora evidenti e il sangue non scompare neanche in questo periodo di pace, tra ferite che si aprono e nasi che sanguinano.
In questa edizione del Torino Film Festival, l’Europa postbellica ritorna (dopo Jojo Rabbit), più strutturata e concreta, ma qui è solo una questione sociale di riflesso. La nazione intera che vuole ripartire dalle ceneri, verso un grande periodo di pace (obiettivo insistentemente ripetuto alle folle), fa solo da fondale ad una storia intima e personale; come altrettanto era in Tesnota - esordio del regista - dove i conflitti etnici e religiosi, nel Caucaso del nord degli anni novanta, erano un semplice (per quanto non facile) accompagnamento alle vicende di una giovane donna, ritrovatasi a fare i conti con l’amore, la libertà, la famiglia, i doveri e i sacrifici. Qui invece è Iya che si ritrova, insieme a Masha, in un gioco di potere, di contrasti e di opposizioni; a dover affrontare il dramma intimo: il dover seppellire un figlio, l’imposizione di concepirne uno, l’impossibilità e l’illusione.
In Dylda (Beanpole), suo secondo lungometraggio, Kantemir Balagov mette in scena una regia al limite della perfezione dove a farla da padrone sono la narrazione dei luoghi, i colori caldi (giallo, verde e arancione, tra tutti) e i dettagli dei volti, degli sguardi e delle singolari gestualità degli attori. L’occhio del regista è duro e crudele, attento a soffermarsi - senza distogliere mai lo sguardo - sulle lenti atrocità che si dispiegano durante il racconto, bloccando lo spettatore di fronte alle grandi disperazioni concrete.
Se alla distribuzione in sala di Tesnota - il suo, già citato, sorprendente esordio - il nome dell’autore-allievo splendeva di riflesso della luce del maestro Aleksander Sokurov (a sua volta produttore del film), dopo questo suo secondo grande lavoro potrebbe essere ormai giunto il momento di chiudere il capitolo “allievo di Sokurov” e iniziare a chiamarlo Kantemir Balagov: tra i più interessanti registi che hanno esordito in questo decennio e un nome da non dimenticare per gli anni a venire.