Interno, giorno. Una mattina da riempire, in un locale qualsiasi. Distante un paio di metri da un uomo anziano, solo e impegnato a contemplare una vita, a tratti immacolata, a tratti torbida, in procinto di sfilacciarsi, in un quartiere occasionalmente impreziosito della presenza di celebrità, gli unici in grado di attenuare il profondo senso di abbandono e disperazione incarnato da un territorio cosparso di esercizi chiusi a un pubblico desideroso di stabilità, senza dover seguir a zigzag i chicchi di grano sparsi da un’élite al riparo dagli schianti di una marea indolenzita, dal garrito di grigi gabbiani e dalle istanze dei poveri, la giovane Leonor attende l’arrivo d’un potenziale cliente. L’uomo arriva.

Tuttavia, la conversazione, immediatamente contaminata dall’imbarazzo untuoso che, solitamente, sporca il dialogo tra responsabili delle risorse umane e inoccupati, si trasforma in un colloquio di lavoro in piena regola. Non esistono tutele. Il compenso pattuito, esiguo, stabilito dalle bizze del consumatore, imbrigliato dall’onta dell’infedeltà, da doveri nei confronti delle figlie e da una reputazione da non sprecare.

Questo è il primo tragicomico scambio di battute nell’interessante esordio al cinema dell’artista e influencer Amalia Ulman El Planeta, attualmente su MUBI. Nonostante l’incipit prenda le mosse, curiosamente, dal cortometraggio, candidato al Premio Oscar, 7:35 de la mañana, il film è caratterizzato da una struttura episodica fin troppo invadente, peraltro evidenziata da una tipologia di transizione che, considerandone l’elementarità, rischia di pregiudicarne i pregi, a discapito della tangibile naturalezza con cui le due protagoniste (Ale e Amalia Ulman, madre e figlia anche nella realtà) affrontano un intrico di difficoltà quotidiane via via sempre più angoscianti e ineludibili.

Nondimeno, una possibilissima fonte d’ispirazione, alla base della pellicola, al di là delle avventure raccontate in appena ottantadue minuti, pare essere la regista Chantal Akerman, la cui figura materna ne ha fortemente influenzato lo stile. Da un punto di vista, per così dire, spirituale, si rivede la mano della compianta autrice di Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles, News From Home e No Home Movie, quest’ultimo un ritratto in presa diretta della madre Natalia, sopravvissuta ai campi di sterminio, girato prima della sua scomparsa.

Benché non sia la sede opportuna in cui discutere della scelta di Sight & Sound di conferire al sopracitato Jeanne Dielman, il capolavoro femminista interpretato da un’indimenticabile Delphine Seyrig, la palma di miglior film della storia del cinema, desta un’impressione non irrilevante rivivere le tematiche care alla regista belga anche soltanto notando la disposizione degli arredi domestici, specialmente della tavola. 

Se perdonabile l’ingenuità emergente in determinate tecniche narrative adottate da Ulman, meritevole di maggior attenzione è l’inafferrabile valore attribuito alla casa delle due donne. Un ambiente in cui ritrovarsi sotto lo sguardo feroce e compassionevole di un orologio incorruttibile, appartato eppure universale. In cui digerire i malcelati inganni sortiti da una società irremovibile nel relegare le generazioni più deboli ai margini, ed esitante nel revisionare le proprie linee di demarcazione di fronte alla collera e alle richieste di manifestanti e precari invisibili alle istituzioni. Uno spazio invalicabile al quale aggrapparsi spasmodicamente, protette dall’incantevole grazia dei giochi e ricordi d’infanzia.

Come se, al di là della casa (non un riflesso dell’immobilità di un museo abbandonato, bensì uno strumento di resistenza), non rimanesse che il cielo cupo di Gijón, sprovvisto al contempo di stelle e orizzonti plausibili, disseminato di macchie scure in cui immergersi e allontanarsi, e così via.