Un ultimo sguardo condiviso, rivolto a un piccione fino all’attimo prima accudito. Il tempo di riordinare i propri pensieri, divisi dall’imperturbabilità di un paesaggio imbiancato, immediato e lontano al contempo. L’arrivo improvviso del momento in cui è impossibile celare le emozioni. Accompagnato da un altro sguardo, in grado di architettare una ragnatela di idee, lealtà e attenzioni che né l’una né l’altro avranno il coraggio di minimizzare.

La necessità di stringere tra le proprie braccia la persona amata. Proteggerla sia dalla violenta agitazione che dal dolore impetuoso derivanti dalla solitudine. Come il cilindro d’un telescopio puntato non in direzione di una città addormentata da una distesa di nuvole, bensì verso il cielo, giunge la felicità spontanea dei baci a ricomporre l’oscurità. Rendendola una parte della luce dentro la quale camminiamo. Come fuochi d’artificio in pieno giorno.

Indipendentemente da ogni eventuale confronto con l’altrettanto recente The Fabelmans, il cinema celebrato in Empire of Light, come sembra dichiarare il titolo, prima di essere uno spettacolo in grado di trasformarsi in magia è una luce. È una luce particolare a rendere speciali i popcorn o gli spuntini in esposizione. Incapaci di emanare la stessa appetibilità nel mondo esterno senza somigliare alla legnosa difettosità di una brutta illustrazione. È una luce particolare a render il pulviscolo emesso dal silenzio una serie misteriosa di messaggi in codice.

Senza essere un’ossessione né un’ancora di salvezza attraverso la quale costruirsi il futuro e salvarsi da famiglia e antisemitismo, il cinema sembra qui ridursi a un oggetto più intimo, quasi un segreto inconfessabile. Non è un deragliamento a scuotere l’immaginazione, come accade al piccolo Sammy Fabelman. Non è il più grande spettacolo del mondo a commuovere Hilary fino a ridurla in lacrime, sottili come lamine d’oro. Bensì, le peripezie di un uomo semplice, Chance il giardiniere, l’uomo venuto al mondo per caso e orfano dalla nascita di Oltre il giardino, tratto dal romanzo di Jerzy Kosinsky, con un indimenticabile Peter Sellers. Un antidoto contro la depressione o il razzismo, contro tutto ciò che sia in grado di distruggere l’allegria e provocare il mutismo.

Ciò che viene descritto dal britannico Sam Mendes, sceneggiatore in solitaria per la prima volta, abbandonata la grandeur e i virtuosismi di Spectre e 1917, è un cinema elusivo. In apparenza, una malinconica entità simile alla forma di un edificio decadente sullo sfondo della provincia. Affatto dissimile da una tappa, passeggera come la poesia o il sogno. È una magia, in apparenza, evanescente, camminando su e giù come un fantasma, poiché ogni spettatore, assaporato lo svago e consumato il cibo, dovrà tornare a nascondersi. Chi più, chi meno animato dalla volontà di addomesticare i propri demoni una volta per tutte. Propri e di tutti.

Poiché al di là dell’universo in cui i giudizi son sospesi, dove la curiosità e lo stupore sembrano più importanti dell’ordine, dove si trepida in silenzio trattenendo il respiro, esiste un altro girone. Un fetido cubicolo inondato da un’ondata spumeggiante di risentimento. Perciò, il momento di maggior impatto emotivo non necessita di parole. Perché non è necessario ripetere come le province rappresentino il cuore dei peggiori sentimenti covati da chi è abituato a emarginare il diverso, a rigettare il cambiamento.

Un’intuizione già espressa da Bruno Dumont nel suo esordio, L’età inquieta, brulicante di ragazzi condizionati da un odio coltivato inconsapevolmente. Un discorso applicabile alla Margate governata da Margaret Thatcher dei ricordi di Mendes, cittadina in attesa dei suoi momenti di gloria. Un discorso valevole anche per, sotto diversi aspetti, al nostro Paese, che pare non essersi liberato della sua autobiografia, per citare Gobetti.

Abituati alle visioni di Spielberg e Damien Chazelle (Babylon), in Empire of Light risulta un azzardo restringere una possibile analisi nel tentativo di sviscerare il ruggito tipico della cinefilia. Si consideri un piccolo istante, in cui Norman istruisce Stephen in cabina di proiezione. Per quanto accalorato, emerge una curiosa comunione; i toni e l’esposizione non sono per niente diversi dai primissimi minuti dell’ultimo Spielberg. E se non è possibile rifuggire da una certa dose di retorica, perché la vita dei propri sogni bisogna pur prendersela, quale funzione ricopre il cinema in questo popoloso deserto che appellano Inghilterra? Hilary è una donna sola. Assume il litio, danza con sconosciuti ripromettendosi di muoversi e procedere, nonostante alberghi in lei quieta la voglia di autodistruggersi. Stephen è un uomo cui viene negata la possibilità di ballare liberamente.

Accantonata la prospettiva di manifestarsi sotto forma di dichiarazione d’amore, qui il cinema assume le sembianze di una fune sopra l’abisso. Un’arte in grado di contenere le angosce dello spirito, alternando l’eccitazione vertiginosa generata dalle sue storie immortali al candido conforto di una carezza. Nonostante non sia immune dall’imperfezione, scorre in Empire of Light la tenera sincerità di chi si prodighi a rinnovare una fiducia profonda, disinteressata a chi si senta perduto.

Nell’intervallo tra la crisi e la resurrezione, sul bordo di uno strapiombo, prendono corpo gli stati d’animo dei personaggi interpretati da Olivia Colman e Michael Ward. Insieme, seguiti dalla sensibilità di Roger Deakins, Trent Reznor e Atticus Ross, conosceranno, inaugurando un amore a là La paura mangia l’anima, sia l’amore che la vita stessa, saggiandone luminosità e storture sulla propria pelle. Nel presente spazio liminale, arricciatosi sopra i ricordi e abbattuti gli spruzzi dell’inverno, ritorna il cinema. Oltre all’avventura e alla fantasia, un sostegno. Dove tutti torneranno indifesi come bambini. Ciò detto, val la pena ricordare un frammento di Stalker di Andrej Tarkovskij. “Rigidità e forza sono compagne della morte; debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza.”

Ciò che si è irrigidito non vincerà.