The power of love
A force from above
Cleaning my soul
Flame on, burn desire
Love with tongues of fire
Purge the soul
Make love your goal

The Power of Love, Frankie Goes to Hollywood

Fred Rogers è stato un ministro presbiteriano, ma è essenzialmente ricordato per essere stato l’ideatore e il conduttore del programma che lo rese una delle personalità più importanti della storia della televisione americana, Mister Rogers’ Neighborhood (1968-2001). Discutendo del pensiero principale alla base del metodo utilizzato non solo nella scrittura dello show, ma anche nella sua vita in generale, Rogers, alla cui figura è dedicato lo splendido documentario Won’t You Be My Neighbour? (2018) afferma, in totale serenità, una grande verità. “L’amore è alla radice di ogni cosa, di ogni relazione”. Poi, dopo aver chinato il capo per un istante, aggiunge, rivolgendosi al suo interlocutore con la stessa seraficità: “L’amore o la sua assenza”.

La presenza dell’amore e la sua assenza ritornano prepotentemente nella sequenza iniziale di Estranei, ultimo film dell’inglese Andrew Haigh, tratto dall’omonimo romanzo di Taichi Yamada, già portato sullo schermo da Nobuhiko Obayashi con The Discarnates (1988).

Osservata un’alba annunciarsi attraverso i suoni distorti prodotti da un ricordo difficile da trasporre, tale da aggrovigliargli il cuore, lo sceneggiatore Adam ritorna alla sua routine. Spiritualmente imparentato con Robert Tucker, la cui vita, condizionata dall’impossibilità di dichiarare apertamente la propria omosessualità nell’ultracattolica Liverpool, venne raccontata dal compianto Terence Davies attraverso The Terence Davies Trilogy –un’antologia di corti dalla forte connotazione semiautobiografica –, Adam vive in completa solitudine. Bloccato dalla pagina bianca, nonostante la certezza circa luogo e tempo in cui ambientare la sua storia – una villetta nella periferia di Londra, 1987 –, Adam trascorre il resto della giornata guardando la televisione, riposando.

Verso sera, ritornato nel suo appartamento “metafisico” dopo un test antincendio, Adam conosce il vicino Harry, l’unico altro abitante di un condominio altrimenti abbandonato ai margini del mondo. Un attimo prima, Adam ascoltava la canzone The Power of Love. Si diceva, l’assenza – sottolineata dall’isolamento pressoché irremovibile –, la presenza – o la riscoperta – dell’amore, cui si aggiunge la parola “vicino”, rafforzando così il discorso introduttivo di Mister Rogers.

Attraverso la riorganizzazione del romanzo di Yamada, un materiale di partenza profondamente complesso, riconsiderato sotto la lente della sua intima sensibilità e delle tematiche a lui care, Haigh opera una riflessione non solo ed esclusivamente sull’universo queer, ma anche sull’universo tutto, indagato nella sua interezza e frammentarietà. Aggiungendo all’introspezione dei sentimenti, già conosciuta e ammirata grazie a progetti quali Weekend, Looking e 45 anni, l’elemento fantastico.

Se in 45 anni lo spettro capace di turbare la quotidianità dei coniugi Mercer abita nel corpo, ritrovato intatto nelle Alpi svizzere, del primo amore del marito, ingenerando nella moglie il sospetto di rivestire il ruolo della sostituta, qui i fantasmi sono i genitori di Adam. Morti a causa di un incidente stradale quando il figlio era un adolescente, essi vagano in una Londra sia contemporanea sia immateriale, alla ricerca del bambino ancora desideroso di reale comprensione e puro affetto.

Da qui, appare chiara una serie di quesiti intavolati da Haigh con cautela ed equilibrio. Avvalendosi di una rete di meccanismi delicati, ma saldi – a partire dalle musiche evocative di Emilie Levienasie-Farrouch, il simbolo immediato dell’irresolutezza dentro l’anima di un superstite afflitta dal senso di colpa e senza risposte. Una rete di fili al servizio di una vicenda singolare permeata dal desiderio di interiorizzare un romanticismo assolutizzante, ma senza sfociare nella stucchevolezza né nella reiterazione, caratterizzata da una successione di eventi solo immaginabili, ma senza scombussolare l’intero impianto narrativo, incredibilmente scorrevole e affatto implausibile.

È possibile ridimensionare un trauma, fino a rendere un episodio tragico una minuscola fiaba? È possibile trasformare l’equivoco o l’errore in una definitiva riappacificazione, i rimpianti in possibilità, il silenzio in dialogo, l’oscurità in una costellazione? Se Haigh – la poetica del quale rimandava già attraverso Weekend al principio oraziano del carpe diem – chiedesse al pubblico di dirgli il nome della forza in grado di sciogliere qualunque dubbio e insicurezza, così permettendo agli esseri umani di aprirsi alla vita, la risposta sarebbe facile. L’amore.

Sarà l’amore ad offrire l’opportunità a una madre imperfetta (Claire Foy) di ricongiungersi con il figlio (Andrew Scott, mai così misurato e convincente), nonostante le differenze intercorrenti. Le basterà muovere appena gli occhi per accertarsi che si senta al sicuro, anche se impegnata a decorare l’albero di Natale, sussurrandogli i versi di Always on My Mind dei Pet Shop Boys, nel tentativo di chiedere al suo bambino scusa.

Sarà l’amore ad indurre un padre taciturno (Jamie Bell) a pentirsi di non aver riconosciuto tempestivamente il momento in cui abbracciare il suo tesoro. Una riconciliazione di rara tenerezza, simile all’addio commosso tra il giornalista Silverio Gama e il genitore nel sottovalutato Bardo di A. G. Iñárritu.

Sarà l’amore, nella scena chiave del party, a permettere all’immaginazione di Adam di allineare tutto ciò che è successo e tutto ciò che sarebbe potuto succedere, mescolando il vissuto alla sostanza liminale dei miracoli. Di chiedere a Harry, in preda all’eccitazione: “Ti prenderai cura di me?”. Soltanto l’amore, suggerisce Haigh – o la magia del cinema, riprendendo la lezione elaborata da Il cineamatore di Krzysztof Kieślowski –, ci fa formulare pensieri semplici, affatto scontati, considerato il limbo in cui è invischiata la stessa umanità, frettolosa e noncurante, come: “Ti proteggerò dai vampiri”. Di rivedere in mezzo alla caligine il sorriso malinconico della persona amata (Paul Mescal). Di plasmare la propria incomunicabile agonia, donando alla nostalgia un oggetto o una colonna sonora – dai Pet Shop Boys ai Blur, da Patsy Cline a Frankie Goes Hollywood – in cui sedimentarsi. Di alterare la normalità della morte, la beffa per eccellenza, modificandone presupposti e natura, trasformandola diabolicamente in vita.

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Sicuramente. Tuttavia, solo gli amanti sopravvivono. Estranei, sotto gli ingenti strati di inquietudine e amarezza, è la paradossale storia di un ritorno alla vita, condotta con la discrezione e la raffinatezza altrettanto individuabili in ulteriori pellicole recenti, come Past Lives e Aftersun. L’ultima tessera, finemente modellata, di un denso, arricchente mosaico che ci invita a coltivare la gentilezza, a non ritenerla, liquidandola superficialmente, un difetto o una debolezza. Adottando la dolcezza come cifra stilistica.