Nel crocevia del JFK International Airport si stagliano le sagome dei passanti contro la luce di un’ampia vetrata. Un uomo impaziente riconosce sua moglie e sua figlia, scavalca le transenne e le raggiunge. L’iniziale esitazione cede il passo a un lunghissimo abbraccio. Farewell Amor, accolto con entusiasmo al Sundance 2020 e distribuito in Italia sulla piattaforma MUBI, racconta il difficile ricongiungimento di una famiglia angolana dopo una lunga separazione. Trascorsi diversi anni di inferno burocratico, Esther e sua figlia Sylvia riescono a ottenere il permesso di soggiorno per raggiungere Walter, immigrato a New York diciassette anni prima.
La volontà di Ekwa Msangi, regista e sceneggiatrice al suo lungometraggio di esordio, è quella di lasciare sullo sfondo un discorso di denuncia politica, senza però depotenziarlo, per concentrarsi piuttosto sulle complesse dinamiche relazionali, regolate all’interno di uno striminzito bilocale di Brooklyn, nel tentativo di una reintegrazione. Al posto di litigi enfatici e drammi da cucina, Msangi lascia spazio ai piccoli aggiustamenti e alle interazioni discrete di quelli che sono, di fatto, tre sconosciuti.
A conferma della frammentazione del nucleo famigliare la narrazione si declina in tre capitoli separati, isolando i conflitti dei tre individui, che condividono però lo stesso smarrimento davanti alla necessità di lasciarsi alle spalle la vita di prima (c’è quindi da chiedersi se il farewell del titolo si riferisca al primo addio, non definitivo, scandito in Angola durante la guerra civile, o piuttosto alla consapevolezza di dover rinunciare, di nuovo insieme, alla parte più recente del proprio passato).
La separazione geografica è sostituita col tempo da una distanza emotiva scoraggiante: Walter reagisce all’attesa quasi ventennale con una grande forza propulsiva, ma l’equilibrio conquistato a fatica sarà presto disintegrato dall’arrivo — sebbene atteso e desiderato — del resto della famiglia. La moglie Esther ne esce invece trasfigurata, imbrigliata in una fede religiosa cieca, poco efficace e dispendiosa, addestrata a un immobilismo che la rende irriconoscibile agli occhi del marito. Sylvia, la figlia adolescente, cela nei silenzi e nelle reticenze una grande vitalità che trova spazio nella danza, che infatti è la chiave d’accesso a un territorio comune per tutti e tre i famigliari.
Per questo motivo la ricchezza di Farewell Amor risiede nel repertorio musicale eclettico ed eloquente, che riflette senza mediazioni lo stato emotivo dei personaggi tra brani di cantautorato angolano, musica kuduro e travolgenti canti gospel. In una sequenza iniziale Walter si concede l’ultimo ballo con la partner che sarà costretto a lasciare. Una regia discreta e intima enfatizza i movimenti lenti e sensuali della kizomba, tra le luci calde del locale e un crescendo musicale immersivo, che sembra raccontare l’attaccamento per l’Angola, e contestualmente anticipa la nostalgia per l’imminente rottura. Al contrario la musica che definisce la liceale Syliva è tutt’altro che malinconica ma ha piuttosto il ritmo, la rabbia e l’avvincente carica energetica del kuduro. Allo stesso modo le riprese dei marciapiedi del quartiere East Flatbush accostate alle note del cantautore angolano Bonga sembrano suggerire sinteticamente il punto di partenza e l’approdo di un’intera comunità.
Nonostante i dispositivi narrativi diventino man mano più convenzionali e prevedibili, la ricchezza della storia si preserva grazie all’attenzione e alla sincerità riposta nelle scelte musicali, che sono il vero vettore emotivo della storia. Non a caso, saranno la musica e la danza a prestarsi come il giusto linguaggio per ricostruire i presupposti di questa nuova famiglia.