Nel torrido caldo estivo di agosto sulle spiagge pontine il confine di due villette separa la famiglia Molino e Mazzalupi, ma ancor prima che fisicamente all’interno della geografia spaziale, i due nuclei sono separati antropologicamente, socialmente contrapposti dal bipolarismo sinistra-destra dell’era post-ideologica. Da una parte i Molino: espressione di una sinistra salottiera, radical chic antelitteram, incapace di dialogare con le classi sociali che pretende di tutelare e con il resto della realtà; simmetricamente contrapposti nella struttura narrativa ai Mazzalupi borghesia ignorante e volgare, razzista e superficiale, ma in un certo qual modo sincera nella sua semplicità.
Ferie d’Agosto vede la luce nel 1996. Il secondo lungometraggio di finzione di Virzì continua il sodalizio intellettuale con Francesco Bruni, iniziato con il suo esordio La bella vita. La coppia autoriale attraverso la sceneggiatura architetta una commedia corale che sfrutta l’ambientazione estiva e la dimensione vacanziera per cercare di fotografare una realtà già prossima alla disgregazione. I mutamenti sociali dell’epoca sono così rapidi e inafferrabili da muoversi più velocemente della macchina da presa, ma nonostante la difficoltà di mettere in scena una contemporaneità così contingente Virzì è in grado di fotografare le distonie e il frastuono della sua contemporaneità, il momento immediatamente precedente all’avvento del berlusconismo, l’assordante rumore del vuoto creato dalla crisi degli ideali.
Come lo stesso regista ha esplicitato, l’espediente dell’ambientazione balneare, che avvicina il film a esempi di commedie più semplicistiche e spensierate, risponde all’esigenza di trovare un compromesso per unire gli intenti autoriali di Virzì con le aspettative della major commerciale che aveva puntato l’attenzione su di lui. La cornice pittoresca in cui Virzì ha racchiuso le sue riflessioni e la struttura stessa del film gli sono spesso valse l’accusa di inconsistenza ideologica e di semplicistica e approssimativa risoluzione di conflitti e contraddizioni.
Questione che Tullio Kezich ha sapientemente delineato paragonando il destino di Ferie d’agosto a quello di un’altra intelligente pellicola di ambientazione balneare come Domenica d'agosto di Luciano Emmer. La pellicola del neorealismo rosa che, nonostante l’accusa di eccessiva approssimazione e di mancanza di spiegazioni rispetto alle reali cause dei conflitti sociali cela in realtà un fotogramma sincero dell’Italia di allora, con un meccanismo simile alla pellicola di Virzì di fine anni ’90.
L’opera, restaurata dalla Cineteca di Bologna, dimostra quanto quelle riflessioni fossero attuali e come la comicità di Virzì, partendo da una reinterpretazione della commedia all’italiana, avesse amaramente disegnato una dimensione realmente realizzatasi. La visione oggi suggerisce implicitamente un bilancio su quello che siamo, ma soprattutto su quello che siamo diventati.
Sul finale, diverse generazioni confessano i propri desideri al chiarore della luna, rivelando un trasversale sentimento di fallimento e insoddisfazione: il sapore amaro che la fine del millennio nel bel paese porta con sé, il disfacimento della sicurezza degli ideali messi di fronte all’inconsistenza di sé e alle proprie ipocrisie.