Primo di una trilogia di film d’animazione ispirata ai romanzi di Project Itoh, The Empire of Corpses di Ryôtarô Makihara è il nuovo lavoro del Wit Studio dopo il successo della serie L’attacco dei Giganti diretta da Tetsurō Araki. Proiettato durante la prima giornata del Future Film Festival 2016 e in competizione per il Platinum Grand Prize, si presenta come un racconto di fantascienza steampunk con incursioni nell’horror puro, quello che pone le sue radici nel Frankenstein di Mary Shelley.

Ed è infatti proprio il romanzo di Shelley che dà inizio al XIX secolo raccontato da Makihara, nel quale partendo dagli esperimenti del dottor Victor Frankenstein la neuroscienza è riuscita a riportare in vita i morti; se vita può chiamarsi essere privati di libero arbitrio, parola e coscienza di sé e venir sfruttati dal resto dell’umanità per impieghi militari e di servitù. L’incipit romeriano con questi ultimi tra gli ultimi che, muovendosi come zombi (essendolo letteralmente), invece di scatenare il panico tra le genti adempiono senza batter ciglio ai desideri dei privilegiati – quando il cinema di genere racconta con intelligenza il classismo sociale -, lascia spazio ad una narrazione episodica pregna di eccessivo didascalismo, portando The Empire of Corpses dalle parti di Fullmetal Alchemist, al quale è parecchio somigliante anche nel tratto (Makihara era infatti nel reparto visivo de Il conquistatore di Shamballa di Seiji Mizushima, tratto dalla serie).

Ma nonostante una parte centrale dove viene a mancare il ritmo e i dialoghi lasciano a desiderare, l’opera sfodera un epilogo emozionante, con un crescendo pieno di terrore, cruenta lacerazione delle carni e angoscianti manifestazioni di (melo)dramma psicologico. Con le avventure del suo John Watson (che col dottore di Arthur Conan Doyle condivide la passione per la ricerca scientifica portata avanti in coppia con qualcuno di cui ama ammirarne l’intelligenza e dal quale non riesce a separarsi) impegnato nel tentativo di riportare realmente in vita il suo amico e collega Venerdì (che del selvaggio di Daniel Defoe possiede il carisma della guida spirituale salvifica), ripristinare cioè la sua anima e non condannarlo ad una non-vita, appare evidente l’amore da parte di Makihara, arrivati a questo punto della sua carriera, per un determinato tipo di storie.

Quelle sulla volontà di infrangere le regole che stabiliscono i confini tra il mondo dei vivi e quello dei morti (nel suo precedente Hal la protagonista, non riuscendo a superare il lutto per il suo amato, decide di rimpiazzarlo con un robot), attraverso l’ingegno umano, strumento atto ad aggirare l’ostacolo materiale che separa spiriti desiderosi di rincontrarsi (qui è la neuroscienza, in Fullmetal Alchemist era l’alchimia) ma impossibilitati a farlo per colpa di trasmigrazioni di anime in corpi estranei (le due opere già citate più Colorful di Keiichi Hara, di cui Makihara ha curato l’animazione, in cui un’anima ormai prossima alla morte rivive in un quattordicenne che ha tentato il suicidio).

Come una creatura cibernetica, quello del regista giapponese è un cinema basato sul rapporto tra biologico e meccanico, caldo emozionale e freddo calcolatore, e quindi tra ciò che può consigliare il cuore per indicare il giusto percorso al cervello. Un organismo bionico nato dall’amore per Frankenstein che ci auguriamo possa crescere fino a diventare di una bellezza “mostruosa”.