Andare oltre Lo chiamavano Jeeg Robot era possibile soltanto in termini di espansione decorativa, di slargamento formale, mentre tutto ciò che formicolava dentro il nucleo non aveva bisogno di sconfinare al di là del suo stesso perimetro: l’unico modo per riacciuffare quei discorsi, quelle intuizioni irripetibili e quelle trovate magistrali era abituare lo sguardo a volerli studiare con maggiore nitidezza dopo averli già scoperti, fare sì che venissero esplorati con ogni mezzo a disposizione a patto di mantenere inalterato il punto d’osservazione. Come dire, bisognava educare quei medesimi occhi a guardare attraverso un cannocchiale, per vedere le stesse cose ma meglio, con una chiarezza superiore e con la consapevolezza di voler osservare bene e non di voler osservare altro.
Fuor di metafora e fuor di retorica, Lo chiamavano Jeeg Robot aveva capito tutto del cinecomic nel momento in cui in Italia non c’era riuscito ancora nessuno; guardavamo estasiati la progettualità Marvel, con il suo fancazzismo collaudato, precisissimo, e le sperimentazioni DC, poco lungimiranti ma senz’altro ben più audaci, e non riuscivamo a trovare la maniera giusta per integrare quel tipo di soluzioni al nostro cinema. Irraggiungibili quei budget (anche se forse è il minore dei problemi), lontanissime quelle storie e quei personaggi rispetto al nostro mondo: una volta stabilita la distanza tra il genere di provenienza e la cultura cinematografica di arrivo, il nostro immaginario si è scoperto inadatto al trasferimento di quelle formule dentro il suo sistema e impreparato a smaltirle per far nascere qualcosa di nuovo; le dinamiche del cinecomic non sono dunque mai state assimilate per davvero ma, molto più semplicemente, simulate, come ad esempio nel caso de Il ragazzo invisibile.
Il film di Salvatores non aveva alcun interesse a tradurre i linguaggi del cinecomic per il nostro mercato ma, al contrario, ha evitato l’intermediazione e si è accontentato di appoggiare un immaginario sopra l’altro, sovrapponendo due ideologie, due modi di fare cinema incompatibili a meno di un’adeguata ingegneria degli stili. Sarebbe come adattare nella nostra lingua un testo straniero lasciando invariata, in sede di traduzione, la sintassi originale: inconcepibile. Gabriele Mainetti lo sapeva già all’esordio, dopo averci ragionato per anni con Basette, Tiger Boy e altri bellissimi corti, e la grande vittoria de Lo chiamavano Jeeg Robot è stata quella di ridefinire l’iconismo superomistico attraverso le storture del nostro racconto di periferia, con i suoi compromessi e i suoi dolori, attraverso le anomalie delle nostre storie di borgata, attraverso l’intrusione del mondo della piccola criminalità, della povertà assoluta nell’Italia di oggi.
Un equilibrio formidabile tra la tensione smitizzante del nostro cinema, tutto disincanto e frustrazione, neorealista nell’accezione più postmoderna del termine, e l’energia incontenibile del grande cinema popolare hollywoodiano, legato alla rivendicazione dell’io, a quella speranza inesauribile verso il potenziale del singolo.
Freaks Out, muovendosi dentro orizzonti limitrofi ma con un’aumentata capacità di carico, avrebbe dovuto condividere le medesime asserzioni, insistendo con maggior vigore sulla spettacolarità dell’azione, sul piacere per l’intrattenimento ad ogni costo pensato ed eseguito come un atto di fede (davvero, le uniche cose che mancavano a Jeeg). Con un budget finalmente all’altezza delle ambizioni e una libertà espressiva che raramente vediamo concessa ai registi italiani, l’opera seconda di Mainetti trionfa in estensione, è così attrezzata che quasi stentiamo a riconoscerla come un prodotto della nostra industria, da una parte guarda al cinema eufonico e generoso di Steven Spielberg con un senso eccezionale della prossimità, senza badare agli sperperi e alle semplificazioni da crowd pleaser, e dall’altra ammicca alle contaminazioni fantasy di Guillermo Del Toro, alla sua capacità di contagiare la storia del Novecento con i bacilli del fantastico, tradendone tuttavia la dolcezza e l’incanto in luogo di soluzioni più secche, più grossolanamente divertite.
Cinema al grado massimo di accessibilità e al grado zero di snobismo, che ama il genere e cerca in ogni modo possibile di farlo amare a chiunque, Freaks Out è grezzo come Jeeg, come lui meravigliosamente inesatto e storto, come lui disposto a sporcarsi le mani e ad evitare le facili soluzioni, eppure la grandeur produttiva e la luminosità narrativa finiscono purtroppo per anestetizzarne le emergenze, ne mimetizzano il cuore e la natura, come se questa volta i supereroi parlassero in dialetto romano non perché sia credibile e giusto per dare finalmente una prassi tutta nostra al cinecomic, ma piuttosto perché risulta simpatico: non sembra più, insomma, una questione identitaria ma di puro divertimento.
Semplificando ai massimi livelli, la risultante conduce ad un film troppo italiano per essere americano e troppo americano per essere italiano. Non che questo sia un problema, o perlomeno non che lo sia perché il film rimanga schiacciato sotto il peso dei modelli a cui si ispira: con ogni probabilità si trattava dell’unica strada veramente percorribile, proprio perché l’opera prima di Mainetti aveva già reso superati e ribaditi concetti ancora vergini per il nostro cinema e forse dopo Jeeg non era possibile rintracciare nuove idee all’interno del protocollo “supereroe all’italiana” ma semplicemente raccontare meglio quelle che già erano state espresse. Con più budget, con più azione, con più spettacolo.
E in questa entusiasmante corsa verso un cinema inedito, raggiante, voglioso come nessuno di misurarsi coi suoi simili hollywoodiani, dove i fenomeni da baraccone hanno i superpoteri, dove i partigiani sono più freak dei freak e insieme combattono i nazisti nella Roma del ‘43, in questa maniera splendida di fare intrattenimento, qualcosa va lasciato necessariamente lungo la strada. Per Freaks Out, il costo delle proprie ambizioni si gioca tutto sul piano del compromesso, quello tra la radicalità del nostro (neo) cinecomic, imbruttito e mirabilmente sbilenco, e le ragioni di quello americano, raddrizzato ed eccezionalmente canonico.