La mostra Bologna Fotografata è stata prorogata fino al 5 febbraio, un’ultima occasione, per chi non avesse ancora visitato le sale del sottopasso di Piazza Re Enzo, in cui poter scoprire, o riscoprire, la storia di questa città. Un itinerario unico nel suo genere, lungo tre secoli di sguardi, come promette l’allettante sottotitolo dell’esposizione, affiancata dalla recente uscita del catalogo che, grazie al ricco apparato fotografico, permette finalmente, non solo in senso figurato, di portarsi a casa un pezzetto dell’esposizione.

Eugenio Riccomini, in un saggio raccolto nel volume, sottolinea l’aspetto educativo della mostra, un ritratto di Bologna nel quale ritrovare i principali  “avvenimenti che hanno fatto epoca, le persone che si sono distinte per qualche loro merito o peculiarità. Ci sono le gioie, e le sofferenze. Bombe appena sganciate, filmate dagli aviatori mentre scendono a fare sfracelli, a dare morte e terrore. E ci sono gli squarci negli edifici d’abitazione, e nei monumenti. Lì sotto s’impara. (…) E ci sono, certo, quelli che hanno permesso questa bella impresa: i fotografi. Quelli ignoti, e quelli diventati famosi, a giusto titolo”. (Bologna fotografata, 2017).

Quello che avviene in queste sale è un continuo scambio di sguardi tra il presente e il passato, sono gli occhi dei protagonisti della lunga “epopea bononiense” a parlare, sguardi in macchina che interrogano il visitatore sollecitato da queste presenze solo in apparenza mute. Non è poi così folle immaginare che, in assenza degli effetti sonori che scandiscono il passaggio da una sezione all’altra, evocando il “suono” di un periodo storico, un sommesso brusio si faccia sempre più insistente rompendo l’innaturale silenzio al quale la fotografia costringe rendendola per sua natura ingannatrice, prestandosi il più delle volte a fuorvianti interpretazioni. La stessa immagine ripresa nella locandina della mostra nei mesi scorsi ha “parlato”, rivelando la vera identità del fotografo in posa sul bordo della fontana del Nettuno, un certo Mario Gnudi accorso in Piazza Maggiore il 29 maggio del 1927 in occasione della visita di Vittorio Emanuele III. Viene facile fare dell’ironia pensando che una scala avrebbe di certo facilitato le cose rendendo meno arduo il ritratto di Sciaboletta intento ad affacciarsi dal balcone di palazzo d’Accursio.

La mostra, resa possibile grazie agli archivi bolognesi, vuole riassumere attraverso la fotografia, quasi 700 scatti affiancati da alcuni filmati, le principali trasformazioni di una città protagonista di una vicenda plurisecolare documentata da numerosi fotografi, testimoni e rappresentanti d’eccezione della vita della comunità.

Come ha ricordato Michele Smargiassi durante la presentazione del catalogo queste fotografie escono dagli armadi di una comunità, i tanti archivi che ne hanno preservato la memoria restituendoci un album di famiglia di stampo ottocentesco, nelle cui pagine iniziali trovare i ritratti del re e della regina e di alcuni dei personaggi celebri dell’epoca, nel nostro caso un lungo lasso di tempo, questo per evidenziare adesso come allora che le fotografie pubbliche e private, custodi di un immaginario collettivo, sono portavoci di una storia condivisa. Un’iconografia urbana in cui ravvisare una forte simbiosi tra il singolo che viene rappresentato e la capacità di questo singolo di rappresentare una comunità in continuo divenire.

Un album fotografico che, è giusto aggiungere, prende le distanze dalla commemorazione fine a se stessa di una città contraddittoria evocatrice di un medioevo fantastico, emblematico il proliferare delle merlature di Alfonso Rubbiani, a cui si contrappone prepotentemente la demolizione delle mura trecentesche e delle torri. Le pagine meno nobili non vengono saltate e un po’, mai troppo, ci si vergogna di fronte al proliferare dei saluti fascisti, di contro offuscati dal ricordo delle azioni della Resistenza in una Bologna occupata stremata dai bombardamenti.

Durante la visita saltano subito all’occhio le numerose trasformazioni urbanistiche che nel corso degli anni hanno modificato l’aspetto della città, come lo sventramento del Mercato di Mezzo e la costruzione di via Rizzoli, drastici interventi che inseguono quella visione di metropoli moderna, di lì a breve, appunto, verrà costruito il cinema Modernissimo.

La quasi totale copertura dei canali, un tempo animati da schiere di lavandaie, per realizzare strade carrabili, decreterà definitivamente la fine della fisionomia caratteristica di Bologna, già messa a dura prova dalla furia distruttiva delle bombe.

Quel che resta della Bologna che fu, ciò che è sopravvissuto ai tre secoli di sguardi divenendo un simbolo tangibile della città, ancor più delle Due Torri (quasi due superstiti), sono i portici, quel “salotto lungo la strada”, che Renzo Renzi celebra indagandone le origini e l’evoluzione nel suo Guida per camminare all’ombra (1954), una “pesante galleria senza fine” che sfocia nelle piazze ritrovando “il necessario respiro verso il cielo, la rivolta aperta all’eccesso di intimità”. Sono le piazze a interrompere l’andamento di questo itinerario all’ombra del sole, che in inverno, riscalda “l’aria barbaricamente azzurra sul cotto” dei muri della città, così la ricorda Pasolini che a Bologna ambientò il finale dell’Edipo Re (1967). Un breve percorso lungo i portici conclusosi nell’ariosa Piazza Maggiore, tra lo svolazzare dei piccioni inseguiti da Ninetto e, similmente al prologo di Renzo Renzi, accompagnato dal suono di un flauto. “Cos’ha Bologna, che è così bella”, continua Pasolini nell’articolo pubblicato sul settimanale Tempo nel 1969, “dopo Venezia, Bologna è la più bella città d’Italia, questo spero sia noto”. (Pasolini e Bologna, 1998)