Sembrava uno scherzo, come quando Godard ha sinistramente intitolato un film Adieu au langage o quando, decenni prima, gli ultimi cartelli di Week end minacciavano “fin de conte/ fin de cinéma”. Una delle sue ultime trovate, a Cannes 2018, era stata inscenare un'inedita dissolvenza incrociata: mentre il suo cinema diventava sempre più tattile e materico (Le livre d'image), il suo corpo fisico svaniva virtualizzandosi via FaceTime, portando a compimento un'inquietante metamorfosi in immagine. Se si aggiunge che se n'è andato a 91 anni, come Alain Resnais, perché non aspettarsi una trovata cinefila, l'ennesima morte metaforica o al massimo futuribile, come quella di La guerra è finita (Resnais), magari con un bel funerale in cinemascope, che per l'appunto va bene “per i serpenti e i funerali” (Fritz Lang nel Disprezzo di Godard).

Da Godard ci si poteva aspettare proprio di tutto, perché non ha mai smesso di sperimentare. Ha utilizzato tutte le tecnologie disponibili (pellicola, video, digitale) per creare un cinema che è sempre stato anche teoria del cinema e si è costantemente imposto come istanza di rinnovamento, non solo cinematografico, ma anche ideologico. Ha attraversato i generi classici smembrandoli, dal noir (Fino all'ultimo respiro, Una storia americana) alla commedia brillante (La donna è donna) alla fantascienza (Agente Lemmy Caution: missione Alphaville), creando una speciale tessitura tra i poli della finzione e il materiale documentario.

In costante dialogo con le altre arti visive, sia che fossero fumetto (Una storia americana, La Cinese) o pittura (Passion), negli anni '60 ha inventato un'indimenticabile palette autoriale composta da blu, rosso e bianco/giallo (La donna è donna, Il disprezzo, Il bandito delle undici, Una storia americana e Due o tre cose che so di lei), finché il colore è diventato addirittura una categoria a sè (il rosso di Week end).

Certo, il celeberrimo jump cut di Fino all'ultimo respiro non poteva lasciar intuire gli esiti radicali della trilogia finale (Film socialisme, Adieu au langage, Le livre d'image), ma nemmeno, all'epoca, la svolta con il gruppo Dziga Vertov. Forse è stato quello il momento cruciale in cui Godard è apparso nettamente schierato dalla parte dell'avanguardia e votato alla sperimentazione permanente. Senza dubbio lo è stato sin dall'inizio, ma è un fatto assodato che l'avanguardia rischia, col tempo, di venire assimilata e metabolizzata, fino ad essere assorbita dai prodotti di consumo.

Con la svolta militante e il ripensamento dei modi autoriali e di produzione - per la verità al limite del sabotaggio industriale-, ufficialmente Godard dichiarava di voler smettere di fare film politici per fare film in maniera politica. Tuttavia, dato che anche prima degli anni militanti l'ideologia aveva sempre avuto una posizione di rilievo nel suo cinema (la guerra d'Algeria, la condizione della donna), con il passare del tempo e le direzioni di volta in volta spiazzanti che prendeva la sua opera, più o meno estetizzanti o sature di un estremismo corrosivo, è apparso chiaro che il suo programma risultava più ampio: smettere di fare film godardiani per fare, invece, film in maniera godardiana. Pur di non trasformarsi in un pedissequo imitatore di se stesso, ha preferito prendere altre strade, sicuramente impopolari, lasciando che ad imitarlo fossero altri.

Si dice che quando qualcuno se ne va, lascia un vuoto immenso. Nel caso di Godard, quel vuoto è la sua cifra da decenni e costituisce forse il suo più grande lascito: è lo spazio tra le immagini. Prendendo le mosse dalla teoria vertoviana dei “film che producono film”, Godard è stato l'antagonista per eccellenza della continuità sia narrativa che visiva, del sistema chiuso, totalizzante e totalitario: ha sostenuto che quando le immagini sono concatenate, schiave le une delle altre, lo spettatore è schiavo di una visione del mondo indotta, ma nello spazio tra le immagini germoglia il pensiero critico.

A colpi di inquadrature, o meglio di accostamenti tra inquadrature, si è scagliato contro le forme del cinema classico, il capitalismo, il pensiero unico. Di conseguenza, spezzando le catene, Godard ha creato un nuovo modo di fare cinema e un nuovo cinema, con uno spettatore-autore che colma le fratture elaborando i propri significati. Immagine e suono in costante dialogo, dove il suono è anche parola pronunciata e la parola scritta è anche immagine, e in cui il gioco di parole è una pratica del pensiero, come il montaggio.

Cinefilo fin dai tempi dei Cahiers, Godard è stato un demiurgo della memoria cinematografica, mediante quel formidabile montaggio del tempo che è Histoire(s) du cinéma: lì aveva quasi giocato a nascondino, da un lato scomparendo come autore tra le citazioni, dall'altro legandosi per sempre all'intero patrimonio cinematografico chiamato in causa anche a ritroso, fino a risalire ai Lumière.

Promuovendo un cinema aperto, portatore di una complessità irriducibile, ha fatto sì che la memoria del passato contenesse in potenza una memoria futura, fatta di una molteplicità di sguardi e di interpretazioni possibili.  Questa, decisamente, resta la sua migliore trovata.