Nel gregge di registi cresciuti sotto lo sguardo di Roger Corman negli anni Sessanta, Monte Hellman è una pecora nera. Dove autori come Peter Bogdanovich e Francis Ford Coppola si sono fatti interpreti di un cinema capace di attrarre il grande pubblico, imponendosi come nomi cardine della cinematografia mondiale, Hellman ha maturato uno stile decisamente più ostico che, complici alcuni passi falsi nella scelta dei soggetti, lo ha lentamente trascinato lontano dalle scene. La sua poetica, non di rado accostata a Michelangelo Antonioni, si distingue per l’uso di ellissi, lunghi silenzi e, nelle pellicole più riuscite, un senso di vuoto che avvolge l’intera narrazione, spingendo molta critica a definirlo portavoce di un “esistenzialismo americano”. Chi si affanna a scavare alla ricerca della filosofia di Albert Camus o Jean-Paul Sartre è però fuori strada: alle radici delle opere del cineasta c’è una formazione teatrale, caratterizzata dal nume tutelare di Samuel Beckett.

L’interesse dell’autore verso il teatro precede quello per il cinema di circa tre anni: la prima compagnia con cui lavora, The Stumptown Players Summer Theatre, viene fondata assieme ad Harvey Berman nel 1952, tre anni prima di essere assunto presso la American Broadcasting Company come pulitore di pellicole. All’esperienza con il Summer Theatre, con cui Monte ha già modo di recitare e dirigere alcuni drammi, segue quella della Theatregoers Company, in cui è possibile leggere chiaramente alcuni degli stilemi che caratterizzeranno tutta la sua produzione successiva. La compagnia, che si esibisce a Los Angeles in un laboratorio costruito dall’Actor’s Lab, esordisce con un adattamento western di Aspettando Godot, testo che Hellman in più interviste non manca di lodare per il suo spessore e la sua ricchezza: «È un’opera che mi commuove e mi appassiona, e l’unica, tra quelle a cui ho lavorato, che mi ispiri sempre nuove idee». Da Beckett Hellman mutua la radicale fatuità dell’agire umano che contraddistinguerà le sue opere più riuscite, dove i personaggi sono ridotti a figure bidimensionali che vagano senza meta. Se Beckett stempera però il vuoto esistenziale dei suoi personaggi tramite stilettate d’ironia, lo sguardo di Hellman è asettico, trasparente: l’occhio della camera si limita a scorrere incessantemente sulla vicenda, sino ad incorrere nelle paralisi distruttive dei finali.

La lezione beckettiana, già ravvisabile all’interno del western metafisico La sparatoria, appare interiorizzata alla perfezione all’interno di Strada a doppia corsia, sorta di capovolgimento dell’amato Aspettando Godot. All’immobilismo della piece è opposta la dimensione del viaggio tipica del road movie, e alle disquisizioni di Vladimiro ed Estragone i lunghi silenzi e le occhiate del Meccanico e del Guidatore. La stessa attesa di salvezza al centro dell’opera del drammaturgo irlandese viene dissolta nel moto incessante ed insensato dei due uomini per le highway americane, dove le gare automobilistiche sono solo un pretesto consapevole per continuare a correre. Eliminata ogni teleologia, resta la consapevolezza di esistere, talmente forte da consumare, nella sua ostinata futilità, la pellicola stessa. I personaggi sono così schiacciati sulla loro vita da rendere impossibile qualsiasi tentativo di umorismo: l’unico riso possibile è quello amaro che nasce dall’essere spettatori della propria miseria, come testimoniato da GTO e le sue patetiche storie. Per rappresentare le personae di un simile scenario, Hellman sceglie attori non professionisti: Warren Oates (fresco del successo de Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah) viene relegato ad una ruolo ancillare, mentre quelli da protagonista sono affidati a James Taylor e Dennis Wilson, musicisti alla loro prima esperienza cinematografica.

La colonna sonora rifiuta la centralità che le era attribuita in molte pellicole contigue, retrocedendo da fulcro di istantanee emotive a parte del sottofondo, confondendosi tra il mormorio dei motori e le rare battute dei protagonisti. Strada a doppia corsia è una gemma della New Hollywood, pellicola fieramente personale capace di unire linguaggi differenti e sfidare a testa alta produzioni più famose. Beckett riletto sulla Route 66, con i The Doors in sottofondo.