Godzilla di Ishiro Honda festeggia i 70 anni con un restauro della pellicola del 1954 che per prima ha gettato il kaiju Godzilla nel mondo del cinema. Prima di parlare delle virtù di questo film, ecco tre buoni motivi per recuperarlo in sala, chissà quando, almeno una volta nella vita.

Primo, vi regalereste una visione rara: la pellicola originale giapponese non è mai apparsa nei cinema italiani; nel 1957, nei nostri cinema è apparso un rimontaggio accuratamente studiato dall’americana Jewell Enterprises. Questa seconda edizione introduce un nuovo personaggio, un giornalista americano, finendo così per contaminare il film di Honda, smorzandone in qualche modo i toni di ricerca sociale — una beffa tanto nel contenuto quanto nella forma. Se in questa vicenda vi sembra di ravvisare delle questioni di geopolitica post-bellica è probabile che abbiate ragione.

Secondo, Gojira, terzo lungometraggio di Honda, permette di apprezzare la sensibilità e la cupezza di un regista prolifico ed eccentrico del panorama nipponico. Le amicizie non rendono un regista di per sé più interessante, ma non è un caso se Honda è stato uno dei migliori amici di Akira Kurosawa, il quale più di una volta lo volle con sé sul set (già nel 1949 in Cane Randagio, o più in là nel 1990 in Sogni, giusto per menzionare due titoli).

Ma soprattutto, terzo motivo: Gojira è un interessante tentativo di documentare la condizione umana attraverso la finzione. Parliamone, perché le vicende che lo hanno reso la genesi di un fenomeno transmediale globale rischiano di offuscarne le virtù antropologiche e cinematografiche.

 “Quello che state vedendo non è un film”, queste le ultime ironiche parole di un giornalista intento a documentare per i telespettatori l’assalto di Godzilla a Tokyo. Ora, Gojira è sicuramente un film e Honda non è Magritte, eppure queste parole ci indicano una chiave di lettura importante: Godzilla e il suo potere distruttivo sono in qualche modo reali.

Ma in che modo? Questa è probabilmente la domanda fondante del lavoro di Honda, domanda che lo ha portato a realizzare un film oscuro, controverso, dal tono autoriale e tutt’altro che d’intrattenimento. Gojira non è un film sul kaiju Godzilla; è un film che racconta la società giapponese e il suo posto nel mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, aprendosi fino alle considerazione più generiche sulla natura dell’essere umano.

Come dichiarò lo stesso Honda in un’intervista, parlando del lavoro fatto sulla sceneggiatura con Takeo Murata: "L’intenzione, non solo dello sceneggiatore, ma anche dell’intero staff produttivo, era di focalizzarsi su come la gente reagirebbe se un Godzilla apparisse davvero. Cosa farebbero i politici? Cosa gli scienziati? Come gestirebbero la situazione i militari? Dati questi presupposti, era inevitabile che il film sarebbe sembrato quasi come un documentario".

Nel film, questa dichiarazione d’intenti è decisamente tangibile. La spettacolarizzazione del mostro gigante che distrugge la città simbolo del Giappone ricostruito, ormai aperto al mondo e in dialogo con l’occidente, è tenuta indietro rispetto agli effetti che questa distruzione genera nelle persone. La finzione è funzionale ad immaginare la realtà; a immaginare, cioè, uno scenario realistico fondato su un’indagine del passato e del presente della società giapponese.

Anche i terrificanti notturni di distruzione, per quanto avrebbero potuto reclamare lo sguardo dello spettatore solo per lo spettacolo degli effetti speciali, sono sempre intessuti con il contesto caotico sociale. La distruzione è fatta per raccontare la paura e le tensioni della società, ricercando l’empatia dello spettatore, portandolo a guardare la finzione come una minaccia che, per quanto simbolica, è concreta.

Reporter che muoiono, forze dell’ordine incapaci di aiutare la popolazione, la folla che cerca di caricare qualche misero bagaglio e fuggire su mezzi di trasporto stipati, persone ferite e morenti per le strade e negli ospedali, i carri armati in posizione, i caccia all’attacco — praticamente un quasi documentario di guerra. Quel che la spettacolarizzazione contemporanea della distruzione ha reso elementi contestuali o, nella migliore delle ipotesi, tasselli narrativi, qui sono colonne portanti dell’architettura concettuale del film.

E poi c’è Godzilla. Il film porta il suo nome, ma definirlo “protagonista” in un senso classico del termine è abbastanza difficile, se non errato. In Gojira lo spettatore non è mai lasciato da solo ad ammirare il kaiju per il mero piacere di mostrarlo, così come non abbandoniamo mai la società per seguirlo in qualche spettacolare rissa con altri mostri giganti. E nei pochi primi piani del distruttore non può non spiccare uno sguardo rivolto direttamente in camera, prima di lanciare un’alitata radioattiva sulle difese militari di Tokyo — una quasi rottura della quarta parete che assottiglia il confine tra finzione e realtà.

Godzilla, alla sua prima apparizione sul grande schermo, è qualcosa, ha un senso, solo relativamente all’ambiente che distrugge, alle vite interrotte, alle tensioni che genera nella società. Un mostro, certo, ma ancor prima una costruzione simbolica dove la finzione e la realtà si amalgamano.

Godzilla è un dinosauro misteriosamente sopravvissuto all’era giurassica nelle profondità dell’oceano, geneticamente modificato in un mostro colossale dalle radiazioni derivanti dall’utilizzo delle bombe atomiche e ora infastidito dalla presenza di qualsiasi altro essere vivente. Tuttavia, pensare che la storia dell’origine del kaiju esaurisca il suo valore simbolico è riduttivo.

Godzilla è anche una minaccia sotterranea, che ha da sempre accompagnato l’umanità, che è emersa portando con sé il terrore e la distruzione. Insomma, non bisogna confondere le cause che, nella finzione, portano Godzilla ad emergere dalle profondità dell’oceano con le dinamiche sociali indagate dal film.

Da notare, a tal proposito, l’escalation drammatica che accompagna le fasi finali della storia, quando il prof. Serizawa si rifiuta di utilizzare la sua nuova arma chimica pur sapendo che potrebbe uccidere Godzilla: “Bombe atomiche contro bombe atomiche, bombe a idrogeno contro bombe a idrogeno e ora una nuova arma per ucciderci tutti quanti ”. Il punto non è che delle bombe siano state sganciate, ma il problema sta nella banalità della logica della sopraffazione che gli esseri umani adottano nel conflitto. Siamo creature “deboli”, incalza Serizawa, e lo siamo nonostante la potenza bellica che possiamo dispiegare. Ciò rende molto sottile il confine tra la debolezza e la potenza.

Come dirà più avanti Jun Fukuda, regista di ben cinque titoli della saga, Godzilla è “come un simbolo della complicità umana nella sua propria distruzione. Non ha emozioni, è un'emozione”. Questa idea aleggia già nel Gojira di Honda, dove Godzilla è rappresentato come una forza negativa della natura senza mostrare dei tratti comportamentali antropomorfi. Non è un personaggio filmico del quale capiamo le intenzioni o leggiamo i comportamenti.

Godzilla è distruzione, è un fenomeno naturale che si manifesta e che sfugge alla comprensione, così come sfugge alla nostra comprensione la natura umana e il suo manifestarsi nella guerra e, in generale, nei sentimenti distruttivi che possiamo provare nell’altro da noi, sia esso un individuo o un’intera società.

Questo grado di riflessione e questa eleganza rappresentativa, purtroppo, si perderanno nella maggior parte dei capitoli della saga (che, ricordiamolo, conta attualmente 38 lungometraggi). E, però, si ritrovano nei più recenti film di produzione Toho (non mi pare di rintracciarli, invece, nel progetto MonsterVerse di Legendary Pictures). Si prendano come esempi notevoli Shin Godzilla (2016) di H. Anno (sì, proprio il regista di Neon Genesis Evangelion) e S. Higuchi e Godzilla Minus One (2023) di T. Yamazaki. Ciò fa pensare che l’attenzione nei confronti di questo simbolo stia vivendo i suoi anni migliori e che sarebbe interessante indagarne le ragioni.

Tornando al 1954, paura, tensione, dolore: questi sono i catalizzatori di quasi tutte le scene del film, i sentimenti che la macchina da presa va a ricercare. Dalle norme sociali del Giappone post-bellico ai pensieri dei singoli individui, dai dibattiti pubblici alle relazioni personali, dalla comparsa di Godzilla alla sua morte — c’è tutta una serie di poli opposti che alimentano una tensione generale che il film non tenta di risolvere.

Il fuoco è sulla complessità della situazione e si cerca piuttosto di restituire una lucida descrizione di quanto possano essere aggrovigliate le dinamiche umane davanti alla paura della sua (auto)distruzione: c’è la tensione tra le istituzioni che vogliono tutelare gli interessi economici tentando di tenere segreta l’apparizione del mostro e le donne del popolo che rivendicano la verità come bene pubblico; c’è la tensione tra chi vuole uccidere il mostro e chi crede che la priorità sia studiare come sia possibile che sia sopravvissuto alle radiazioni; c’è la tensione interna di chi possiede un’arma per poter uccidere Godzilla e la consapevolezza che mostrare al mondo la potenza di quest’arma alimenterebbe la logica bellica; è la tensione che lo spettatore prova tra l’empatia verso le grida di terrore e quella che potrebbero provare per un Godzilla morente nel suo oceano.

Godzilla che — perché no? — preso nella dalla prospettiva finzionale può essere anche visto come una vittima, l’ennesima, una forma di vita tra le altre che abita questo pianeta, e non solo come una minaccia all’ecosistema umano. Eppure, neanche la morte di Godzilla può mettere a tacere il suo ruggito.

Come fa notare il prof. Yamane, un biologo, dopo l’apparizione del kaiju gli esseri umani sanno che anche questo è possibile. Eppure, neanche la sua fede nella ragione può fargli pensare che la lezione sarà appresa. Infatti, il prof. Yamane è proprio colui che avanza nel film l’idea più controversa: non bisogna uccidere Godzilla, perché bisogna studiarlo, conoscerlo, comprenderlo. E questa legittima perversione di un biologo, un personaggio cruciale per il film, trasposta simbolicamente, è in realtà un profondo dilemma.

Se infatti Godzilla è un simbolo che sintetizza sentimenti negativi, e non solo un mostro di 50 metri, allora la domanda “Perché Godzilla è sopravvissuto ad una così mostruosa sovraesposizione alle radiazioni atomiche?” è traducibile come una domanda sulla condizione umana: “Perché la nostra tendenza autodistruttiva è sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale?”, o anche “Perché non abbiamo appreso la lezione della storia?”.

Se c’è un responso in Gojira, nel suo intento quasi documentaristico, è etico: nel 1954, la società giapponese non è ancora pronta a gestire il peso delle conseguenze dei suoi (e degli altrui) errori. E potreste sentire il ruggito di Godzilla fin dentro le tempie qualora provaste a trasporre questo messaggio nella contemporaneità. In tal caso, sareste chiamati anche voi a svolgere un lavoro di immaginazione della realtà che questo film, incredibilmente, può ancora stimolare.