Un primo plausibile pensiero, una volta terminata la visione di Great Freedom, da pochi giorni disponibile su MUBI, potrebbe essere rivolto al regista tedesco Rainer Werner Fassbinder. Senza esitazioni, è possibile affermare che ne avrebbe riconosciuto il valore e la sensibilità, magari a sua volta riconoscendovisi o traendone ispirazione.

Tra gli elementi della sua filmografia, evocati in centodiciassette minuti di pellicola, val la pena menzionarne due in particolare. Il primo, individuabile durante le prime battute della miniserie Berlin Alexanderplatz, tratta dal romanzo scritto da Alfred Döblin sul finire degli anni Venti. Il secondo, più sottile, ma non meno esplicito, nell’utilizzo, ironico, del termine freiheit (libertà), designato a comporre il titolo di una delle opere più apprezzate dell’autore bavarese: Il diritto del più forte. In originale Faustrecht der Freiheit, letteralmente Il pugno di ferro della libertà.

Un’introduzione al film di Sebastian Meise, presente nella rosa dei migliori quindici film internazionali agli scorsi Premi Oscar, forse, non può prescindere da una piccola analisi della parola libertà, così come intesa nei due predecessori. Nel primo episodio di Berlin Alexanderplatz, intitolato non casualmente Comincia la pena, dopo una panoramica del microcosmo che lo aspetta, incontriamo il protagonista Franz Biberkopf, in procinto di uscire di prigione dopo quattro anni.

Una breve occhiata ai documenti riguardanti la sua scarcerazione. La porta s’apre. Mentre altri disgraziati colmeranno il vuoto appena lasciato, l’uomo viene investito dai rumori della strada. Senza sentire la necessità di fare all’istante uno sforzo per riprendersi, si abbandona allo sconforto e alla paura, stringendo gli occhi, tappandosi le orecchie. Come colto da una terribile epifania, anche se poco più tardi pallido e stravolto dalle vertigini, l’uomo arriva alla conclusione che pure il mondo esterno è, inconsciamente, una prigione. Torna indietro, ma il funzionario gli intima di uscire immediatamente, di non voltarsi.

Invece, Il diritto del più forte è una storia d’amore e sfruttamento, a metà strada tra il melodramma di Douglas Sirk e il pensiero di Bertolt Brecht intorno alle logiche di dominio e contraddizioni all’interno della classe dirigente. Qui, Franz Bieberkopf, interpretato dallo stesso Fassbinder, incontra il giovane Eugen, figlio di un tipografo sull’orlo del fallimento. Accerchiato da una pletora di personaggi ipocriti, Franz arriverà a sperperare il suo intero patrimonio pur di compiacere un amante che, una volta salvata l’azienda di famiglia, perderà gradualmente interesse nei suoi confronti. Incapace di destare l’affetto di un uomo insensibile, Franz farà ritorno al punto di partenza. Di nuovo libero. Tuttavia, solo e abbandonato da tutti.

Se è possibile raggiungerla e preservarla, quale mai sarà la vera libertà? È difficile resistere alla tentazione di descrivere il finale dell’ultimo film di Sebastian Meise, uno snodo in cui ritorna, con tutte le sue aspettative e la sua paradossale infelicità, la parola freiheit. Sorprendente dramma carcerario, arricchito dall’interpretazione di Franz Rogowski, interprete in continua ascesa, Great Freedom è contemporaneamente il ritratto di un uomo inconsapevolmente iniziatore di una resistenza silenziosa e una tenera esplorazione della sessualità maschile nella Germania postbellica. Alternandosi tra punti di vista differenti – un po’ voyeur, un po’ sociologo – e stacchi temporali, Meise e lo sceneggiatore Thomas Reider non perdono mai il controllo, bandendo la retorica e dosando accuratamente l’uso della parola diritto senza risultar predicibili.

Prendendo le mosse dal famigerato paragrafo 175, una norma penale che considerava ogni rapporto sessuale tra persone di sesso maschile innaturale, poteva trasformarsi nell’ennesimo susseguirsi di violente agitazioni e impetuosi dolori. Tutt’altro. Anzitutto, è un inno all’amore, vissuto attraverso le gioie unicamente trasmissibili dal piacere e dall’orgasmo, prima di rappresentare un rifugio o una possibilità di riscatto. Hans, per quanto cerchi seriamente di allontanare l’idea che tutto possa concludersi in un ritorno in cella, entra ed esce, pur senza voltarsi. A differenza del Biberkopf già raccontato da Döblin, senza paura.

Senza paura, si oppone alle brutalità perpetrate dallo stesso Stato, assorbendone le conseguenze. Senza versare lacrime, si acquatta con una dignità irreprimibile nel buio della sua prigione, accesa una sigaretta per avere più un’idea dello spazio disponibile che per conservare la speranza in un ripensamento della giurisprudenza. Stringe amicizia con l’omofobo Viktor, finché l’odio non si adegua alla sua battaglia, trasformandosi in un legame, qualcuno sul quale poter fare affidamento.

Soffuso di virtù, l’Hans di Franz Rogowski non è un eroe di kafkiana memoria. Hans sa di non aver fatto nulla di sbagliato. Ciononostante, preferirà esser arrestato continuando a fare ciò che vuole invece che precludersi i baci sul collo, la felicità e il sorriso, raggiante e proibito, dell’uomo che ama, che sia Oskar o Leo.

Finché, dopo aver trovato nella Bibbia il mezzo più congeniale per le sue dichiarazioni, selezionando determinati versetti, dopo aver trovato l’espediente adatto per ritrovare un abbraccio, non fa capolino la libertà. Di nuovo. Quella vera, magari. Finché sovviene un’amara constatazione. Nel locale Große Freiheit – la ragione del titolo –, in assenza della luce del mattino, tra ansanti note di sax e mucchi di drink, gli uomini fanno ancora l’amore furtivamente, con un primitivo, trattenuto senso di solitudine.

Se il mondo esterno fosse una prigione? Dove riversare la propria energia? Da dove riprendere la resistenza? Nell’esempio di Hans, basta un masso, sdraiato per terra sul selciato. Per ricominciare il sogno dal principio. Continua la pena. Stavolta, seguendo le regole del prigioniero.