Era il 1967 quando la controcultura, di fatto già evolutasi in moda, arrivò in teatro grazie a Hair. E Miloš Forman era tra il pubblico. The American Tribal Love-Rock Musical era in linea con i tempi che raccontava: un seducente pot-pourri di amore libero, pacifismo, droghe e coscienza cosmica.

L’adattamento cinematografico arriva però soltanto nel 1979, appena un paio d’anni dopo una  riproposizione del musical a Broadway che si rivela un fiasco: i tempi sono cambiati, gli hippie non sono più à la page. Tremendamente in ritardo e perciò bollato come datato, anacronistico, il film di Forman si riferisce a un passato troppo recente per uno sguardo nostalgico e patinato alla Grease. Ne emerge invece una coloratissima parabola antimilitarista, con la rivisitazione di Claude Bukowski in chiave redneck e l’introduzione del tragico scambio di persona nel finale. Si sarebbe quindi tentati di ridurre il film a una tipica lettura a scoppio ritardato del Vietnam. E certamente lo è, ma non solo.

Qualcosa stride e disturba, al punto che in questo si potrebbe individuare la cifra distintiva e autoriale della pellicola. Da un lato infastidisce la posizione volutamente ambigua di Forman nel dipingere i personaggi, nell’ispirare a tratti un senso di compiacimento e tenerezza per un credo squisitamente naif, a tratti un disincantato distacco ironico. Parallelamente, la messa in scena del film oscilla tra rigidi stereotipi e pennellate di realismo. Stereotipati sono i personaggi e i loro comportamenti: se la brigata di Berger inscena un vero e proprio catalogo di dettami hippie, il milieu borghese, appena tratteggiato, è un covo di manichini. L’esercito, poi, è una fabbrica di automi.

Tutto questo ha pieno diritto di esistere in un musical, ma ecco l’elemento stridente: nel complesso Hair non indulge all’onirismo tipico del genere. Certo, si tratta di dettagli, ma quando George Berger sale sul tavolo durante la scena della festa cantando I Got Life, quella scarpa da ginnastica lurida che sposta il bicchiere in qualche modo incrina il patto di finzione.  E di certo girare in pieno Central Park, con un tappeto di foglie secche e i palazzi riconoscibili sullo sfondo, significa inserirsi di prepotenza nel reale e vivificare la vicenda sganciandola da uno sguardo strettamente estetizzante, cosicché molte sequenze di danza, complici le coreografie di Twyla Tharp, acquistano una spontaneità inusitata.

Sono proprio le contraddizioni a far vibrare ancora oggi la pellicola e ad ispirare un amore sofferto per una stagione di libertà che Forman preferisce non celebrare, perché una celebrazione equivarrebbe ad un elogio funebre.