In diverse occasioni, Cristina Rivera Garza, nel ricostruire la storia della sorella Liliana, vittima di femminicidio e fulcro del memoir L’invincibile estate di Liliana, riflette su una problematica evidenziata anche da Rachel Louise Snyder in No Visible Bruises: What We Don’t Know About Domestic Violence Can Kill Us. Scrive Rivera Garza, sottolineando la mancanza di un linguaggio – nel Messico in cui si verificò il delitto – capace di identificare fattori di rischio e momenti di estremo pericolo: “Non si è mai inermi come quando non si ha linguaggio”.

Difatti, se le vittorie delle attiviste, determinate a mettere in discussione l’endemica disuguaglianza di genere e la preminenza del patriarcato, sono recenti, restare in silenzio è stato in passato un modo di difendersi. Talvolta, l’unica strategia per proteggersi da facili accuse, curiosità morbosa e sguardi di commiserazione. In tal senso, non è una sorpresa che il punto di svolta in How to Have Sex, opera prima di Molly Manning Walker vincitrice nella sezione Un Certain Regard allo scorso Festival di Cannes, si configuri all’interno di un paesaggio pressoché muto.

Inizialmente inquadrato nelle prime ore del mattino, appare un luogo irreale, come sconvolto da una metamorfosi. In assenza sia di musica sia di luci fosforescenti, le strade di Malia, indecise se impersonare un mondo apocalittico o una cittadina del selvaggio West, si rivelano un inquietante miscuglio di desolazione e rifiuti. Gli unici elementi immutati, un vento tutt’altro che addormentato e il frinire di cicale ignare di tutto. Successivamente, a mezzogiorno inoltrato, spunta la figura di una ragazza all’orizzonte. Il viso gonfio di lacrime, nascoste per farsi coraggio, le dita piegate e ripiegate nel tentativo di scaricare la tensione, dopo aver sospirato a lungo, Tara ritorna dalle amiche, impazienti di conoscere i dettagli delle sue avventure notturne, ma anche preoccupate dalla sua assenza.

How to Have Sex, seppur contrassegnato da un incipit all’insegna del divertimento, il mezzo che concede alle tre protagoniste di eludere provvisoriamente una generale ansia per il futuro, è un film che richiede agli spettatori di prestare attenzione ai silenzi. Rispetto alla cornice, a emergere quali fondamentali aspetti nell’economia della narrazione, siano studiati e approfonditi o tracciati rapidamente, sono i piccoli gesti, le allusioni, le intuizioni e i non detti. La vacanza migliore di sempre, come definita da Tara (Mia McKenna-Bruce), Em (Enva Lewis) e Skye (Lara Peake), gradualmente lascia il posto all’articolazione di tematiche ben più complesse del semplice svago.

Non senza tradire un certo schematismo, comprensibile in un’opera immediatamente alla ricerca di una coincidenza (o un punto di separazione ma, comunque, di contatto) tra il proprio immaginario e la concreta realtà, con tutta naturalezza i personaggi di Manning Walker, prima, vivono un idillio. Poi, assume rilevanza centrale il modo in cui ognuno, nella sua individualità, riconosce l’importanza del consenso in un rapporto.

Partita da una conversazione avuta tra amiche del liceo, Manning Walker si è calata in Grecia, intenzionata a prendere appunti e delineare un confronto attraverso la cinepresa. Registrando dunque immagini da dati reali – luoghi, oggetti, gesti e persone – per comprendere quanto la società sia cambiata, Molly Manning Walker si è fatta portavoce della necessità di un ulteriore mutamento culturale, etico e sociale. Un lavoro di superficie, si potrebbe dire, eppure consapevole di sé e profondamente politico.

Manning Walker, già direttrice della fotografia prima di esordire alla regia, non cerca di dire nulla di nuovo sull’argomento, ma piuttosto di filtrare attraverso la propria sensibilità immagini simili alle altre già conosciute. Conosciute e vissute da chi? Dalle innumerevoli donne che hanno dovuto rimpicciolire la propria presenza ovunque andassero, per evitare in ugual misura gli attacchi dei mordaci e le offerte dei benintenzionati. Qualsiasi cosa, pur di non udire considerazioni quali “se fosse rimasta a casa, se non le aveste dato tanta libertà, se le aveste insegnato a distinguere tra un brav’uomo e uno pessimo”.

Allora si comprende la trasparente indifferenza di Tara di fronte alla richiesta dell’amica Skye, in realtà segretamente gelosa: “Non fare la difficile”. Se, come insegna il documentario di Chris Marker Sans Soleil, il tempo cura tutto tranne le ferite, prima di interrogarsi sui perché e sui percome, bisogna essere disposti ad ascoltare. Il messaggio è uno solo, forte e chiaro. Poiché gli esordi solitamente ribollono di vitalità e urgenza, anche in questo caso non c’è tempo per le sottigliezze.

Per quanto le avversità fortifichino il carattere, come dichiara il professore interpretato da Paul Giamatti in The Holdovers – Lezioni di vita, non è necessario affrontare le difficoltà in solitudine, come assicura Em, la prima in grado di leggere il disagio di Tara. Soltanto alzando la voce si può innescare un cambiamento tangibile, instillare consapevolezza, soprattutto se si discute di relazioni e violenza di genere. Alzando la voce è possibile cantare in coro, a testa alta e con la convinzione di essere nel giusto, “e la colpa non era sua, né per dov’era / né per come era vestita”. Banalmente, consigliato agli uomini. Sia coloro che già conoscete, sia coloro che incontrerete. Che nessuno si senta esente.

Con buona pace della perfezione stilistica, poiché How to Have Sex è un’opera coming of age che con un’architettura incisiva, insieme asciutta e vibrante, conduce una sincera indagine sin da subito determinata a voler restituire voce e dignità alle survivor. Un limpido esempio di pedagogia militante.